La giustizia ridotta a cosa fra magistrati
L’espulsione dei laici dal “mini Csm” di Bari
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Non so se l’ex magistrato Palamara sia davvero responsabile di tutto quanto gli viene attribuito, addirittura l’inventore del sistema omonimo. Però, se davvero così fosse, dovrebbe oggi guardare con paterno compiacimento a quanto avviene a Bari, dove i suoi ex colleghi hanno espulso gli “estranei” dalle sedute del Consiglio Giudiziario che trattano la valutazione di professionalità dei magistrati.
Non foss’altro perché il “sistema Palamara” si nutre proprio di opacità, sostanziandosi nel tradurre in atti amministrativi (formalmente adottati da organismi collegiali), decisioni e “pacchetti” confezionati altrove, in cene riservate, o in complicate mediazioni tra petizioni e mugugni che si rincorrono via WhatsApp. La vera nemica di questo “sistema” è piuttosto la trasparenza, perché è certo più facile far finta di decidere questioni già decise altrove se si è “tra di noi”, senza sgradite presenze estranee. Ed è per questo che ci viene da immaginare un ideale Palamara strizzare l’occhio ai suoi ex colleghi, borbottando un: “Bravi! Siete sulla strada giusta!”
Ma non sono queste le ragioni che hanno indotto i componenti togati del Consiglio Giudiziario di Bari ad approvare la risoluzione che elimina il “diritto di tribuna”, l’istituto che prevede la partecipazione – senza parola e voto – di componenti laici ( avvocati e professori) alle sedute che riguardano la valutazione di professionalità dei magistrati. La ragione vera – come ha precisato il presidente della locale Giunta dell’Anm – è che gli avvocati immagazzinerebbero in tal modo una gran massa di “informazioni delicate e sensibili”, che potrebbero usare – questo non si dice esplicitamente, ma va da sé – per influenzare le decisioni dei Giudici.
Lo stesso rischio non si correrebbe, al contrario, per il parallelo accumulo di informazioni assicurato ad un’altra parte processuale, il Pm, che partecipa – con diritto di parola e di voto – al Consiglio Giudiziario. Ma della probità del Pm – al contrario degli avvocati – si può essere certi, perché un magistrato è degno di maggior encomio di non so quanti cherubini e di maggior gloria di non so quanti serafini.
A chi – poco avvezzo a simili questioni – venisse in mente a questo punto che le informazioni “delicate e sensibili” trattate nelle sedute del Consiglio Giudiziario attengano a questioni privatissime, come l’orientamento sessuale dei magistrati, le loro opinioni religiose e politiche, tare familiari o difetti genetici, ricorderemo che si tratta in realtà di tutt’altro: di ritardi nel deposito delle sentenze, di beghe con colleghi e collaboratori, di addebiti disciplinari eventualmente segnalati dai capi degli Uffici nel parere che accompagna la procedura. Insomma tutte cose che il Popolo Italiano, in nome del quale i predetti magistrati operano, avrebbe magari il diritto di conoscere.
E allora, altro che “sistema Palamara”! La vicenda è spia di qualcosa di ben più grave, che riguarda la famosa “difesa dell’autonomia e dell’indipendenza” che rischia di avvilirsi in arroccamento e superba sacralizzazione di sé, riducendosi a pura e semplice rivendicazione dei privilegi di categoria, non certo della funzione, come dimostra la scarsissima attenzione prestata, di contro, alla tutela dell’indipendenza del Giudice nei confronti del Pm. E denuncia una grave involuzione in senso autoritario della cultura della Magistratura associata, una tendenza a escludere gli “estranei”, perfino il “Popolo” in nome del quale pure si dovrebbe operare.
La Giurisdizione, nell’idea di alcuni togati, è “cosa nostra”: una interlocuzione tra magistrato Pm e magistrato Giudice, e l’attività difensiva è una fastidiosa interferenza che mira solo a complicare le cose. Di qui le continue erosioni giurisprudenziali dei principi del giusto processo e dei diritti della difesa, e una legislazione – fortemente patrocinata dalle appendici della magistratura presenti nelle varie articolazioni dello Stato Profondo – che ha sostanzialmente finito con l’espellere perfino l’imputato dal processo, riducendolo ad una icona sullo schermo della video- conferenza, privandolo di ogni reale possibilità di interlocuzione.
Ed è senza doverlo nemmeno guardare negli occhi che il Giudice può oggi – con agghiacciante leggerezza – dispensare ergastoli e decenni di galera.
Viene in mente la detenzione amministrativa, un istituto della legislazione di occupazione israeliana, applicabile a tempo indeterminato da un giudice, senza che imputato e difesa possano aver conoscenza degli atti e nemmeno del capo di incolpazione. La giurisprudenza di quel paese ha affermato che ciò non comprime affatto la funzione difensiva, perché essa si sposta in capo allo stesso Giudice. Ecco il modello che sembra piacere a molti della Casta, anche qui da noi. Un processo in cui un Pm chieda una condanna e il Giudice decida, senza ulteriori intralci e ritardi, attento solo alla coerenza del testo e indifferente alla Verità. Ignorando perfino se riguardi un essere umano o solo un nome, un semplice tratto di penna sulla carta, da citare al massimo nelle autorelazioni ai fini della carriera. Una concezione non nuova, anzi antichissima. Che ha poco a che vedere con la Giustizia.
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