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Mercoledì 27 Novembre 2024 ore 13:40
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La giustizia è malata, ma il Parlamento non è in grado di curarla

Le parole del professor Tullio Padovani, docente emerito di diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, avvocato e componente dell’Accademia dei Lincei.

La giustizia è malata, ma il Parlamento non è in grado di curarla

 “La verità sa qual è? Che noi abbiamo sancito la presunzione d’innocenza, l’abbiamo inserita in Costituzione e poi l’abbiamo messa nell’armadio, come un bel vestito destinato a non essere indossato mai”. Non usa mezzi termini il professor Tullio Padovani, docente emerito di diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, avvocato e componente dell’Accademia dei Lincei.

Partendo dall’assoluzione dei vertici Eni nel processo di primo grado che si è concluso nei giorni scorsi, e dalle polemiche che ne sono seguite – anche all’interno della stessa procura di Milano, dove hanno assunto i toni dello scontro – parla con HuffPost del processo penale in Italia e delle “deformazioni” a cui, a suo parere, si presta. 

Domanda. Professore, l’assoluzione dei vertici Eni in primo grado al processo sulle presunte tangenti in Nigeria ha creato dibattito, anche all’interno degli stessi uffici requirenti milanesi. Spesso le assoluzioni in giudizio generano una sorta di indignazione. Cosa ne pensa?

Risposta. L’unica cosa che posso dire nel merito di questo procedimento penale è che le indagini, i cui dettagli erano stati largamente diffusi alla stampa, si sono rivelate una cartuccia molto bagnata. Ora parliamo di questo caso, ma il problema si ripropone spesso, quando si azzera la tutela dell’indagato e si finisce di celebrare i processi mediatici.

  1. Il collegio milanese ha sancito un’assoluzione con formula piena. C’è una reazione che, in particolare, colpisce. Quella di Antonio Di Pietro (tra i protagonisti della stagione di Mani Pulite, fino alla fine del 1994 in forze alla procura di Milano, ndr). Parlando all’AdnKronosdi questa inchiesta ha dichiarato “si tratta di un modello di indagine alla ricerca di un reato, non è un modello di indagine alla scoperta del colpevole di un reato avvenuto”. Parole piuttosto forti, soprattutto se a pronunciarle è un ex magistrato che lavorava proprio nella procura in questione. Esistono davvero modelli di questo genere? 
  2. Beh, se lo dice Di Pietro, possiamo pensare che se ne intenda! Naturalmente non posso sapere se in questo caso, a Milano, è successa davvero una cosa del genere. Quel che posso dire, però, in base alla mia esperienza, è che in molte circostanze ho avuto l’impressione che si cercasse prima il colpevole e poi il reato. Ha presente La Panne di Friedrich Dürrenmatt? Il protagonista si trova a essere finto imputato di un processo. Quando lui dice di non aver commesso reati, i suoi “giudici” gli rispondono di non preoccuparsi perché “un reato si finisce sempre per trovarlo”. Quella era una farsa. Il problema è se accade nella realtà.
  3. D. E qual è la realtà del processo penale in Italia?
  4. Ci sono vari problemi annosi, uno di questi è la narrazione mediatica dei fatti. Nutrita, spesso, di informazioni fornite dalla procura e, quindi, unilaterali. Parte della stampa finisce per dare per accertati fatti che sono ancora oggetto di indagine. E su questi imposta tutto il racconto. Ecco che, così, si assiste a una deformazione del processo. E al danno iniziale per l’imputato si aggiungono le critiche, la censura, nei confronti del giudice che – secondo diritto – assolve. Io ne ho conosciuti di coraggiosi che hanno assolto e si sono trovati a fronteggiare una sorta di ribellione, dovendo ricorrere addirittura alla scorta.
  5. È indubbio che spesso il racconto sia sbilanciato a favore dell’accusa, ma non sarà solo colpa dei giornalisti.
  6. Assolutamente. Ma questo modo di fare le cose è come un’onda che viene da lontano e riguarda da vicino il carattere del potere dell’accusa. Che si nasconde dietro l’obbligatorietà dell’azione penale, come fosse uno scudo. Come se non lasciasse un margine di discrezionalità. Ecco, allora, se si riconoscesse che l’attività dell’accusa è frutto di una scelta, allora si potrebbe chiamare chi l’ha compiuta a risponderne. 
  7. Vedo in queste sue parole un riferimento alla valutazione dell’operato dei magistrati. Pochi giorni fa, in un’intervista al Messaggero, il vicepresidente del Csm, David Ermini, ha detto che a suo avviso bisognerebbe tenere in considerazione anche la tenuta dei provvedimenti di un magistrato, quando se ne valuta il lavoro. E tra gli esempi portava proprio un pm che chiede processi che sistematicamente, o quasi, portano ad assoluzione. Cosa ne pensa?
  8. Assolutamente d’accordo. Ma è una proposta antica, come quella sulla separazione delle carriere, che io condivido. Un discorso del genere ci può stare laddove io attribuisco al pm un potere orientato di scelta. Lì, se sceglie male, allora ne deve rispondere. Ma è l’esatto opposto di ciò che accade oggi. Ovviamente bisogna fare dei distinguo, perché ci sono casi in cui l’assoluzione arriva in forza di elementi che il pm non poteva immaginare quando indagava. Altre volte, invece, ci troviamo di fronte a processi che proprio non dovevano essere impostati. E qui bisognerebbe agire, anche in sede di valutazione.
  9. L’obiezione che potrebbe fare un magistrato è che le valutazioni professionali esistono già, così come le norme in caso di illeciti disciplinari.
  10. Non mi sembra che i pm che hanno fatto errori macroscopici – pensiamo al caso Tortora – non abbiamo fatto poi carriera. Per quanto riguarda i giudizi disciplinari, io li ascolto spesso (si celebrano davanti al Csm, ndr) e non mi sembra che risolvano la questione di fondo. La verità è che nessuno vuole essere sottoposto a valutazioni sul suo operato e, di conseguenza, non vedrebbe di buon occhio mai a una riforma che miri a ciò. Per non parlare di un intervento legislativo che punterebbe alla separazione delle carriere.
  11. E qui c’è subito pronta un’altra obiezione: molti pm le direbbero che separando le carriere c’è il rischio di essere assoggettati al potere esecutivo.
  12. Ma figuriamoci! In tantissime parti del mondo le carriere sono separate, dobbiamo quindi pensare che in tutto il mondo i pm sono asserviti al potere esecutivo? In alcuni posti, certo, accade, pensiamo alla Russia. In quasi tutti gli altri no. Basta che il Parlamento fissi delle norme precise.
  13. E il Parlamento in questi mesi sarà chiamato a lavorare alle riforme della giustizia, già in cantiere. Quali sono secondo lei le priorità?
  14. Non sono molto ottimista sul punto.
  15. Perché?
  16. Questo è un paese profondamente malato. La prima volta che ho partecipato a un evento in cui si parlava di riforma della giustizia era il 1969. Sono passati 52 anni e nella mia storia di penalista di provincia ho assistito tante volte all’approvazione di misure che erano salutate come salvifiche. Poi, in realtà, siamo rimasti dove eravamo. Anzi, le cose sono peggiorate.
  17. Nessuna speranza, dunque?
  18. La lascio a chi verrà dopo di me. Non immagino un cambiamento significativo, e positivo, che avvenga in tempi rapidi.
  19. Eppure la ministra Cartabia sta lanciando vari segnali di discontinuità rispetto a ciò che abbiamo conosciuto di recente nel campo della giustizia. E sembra determinata ad andare avanti con le riforme.
  20. Marta Cartabia è una persona degnissima e assolutamente non le si può negare apprezzamento, né stima. Le riforme, però, poi si fanno in Parlamento. E lì non sono sedute tante Cartabia. Mi chiedo: nelle camere, per come sono composte oggi, può maturare una riforma? Sono perplesso e so che nessuno abbia la bacchetta magica. Nonostante ciò sono sicuro che in alcuni settori, come quello delle carceri, la Guardasigilli saprà incidere in modo positivo. Non mi aspetto miracoli e penso che più che alle riforme bisognerebbe stare attenti a non precipitare nel baratro. Ecco, spero che Marta Cartabia sappia arrestare questa corsa verso il baratro.

Tratto da Huffpost

 

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