AVVOCATURA IN SALSA MESSICANA?
Il modello di organizzazione che ha trovato la sua consacrazione nella legge ordinamentale 247/2012 è apparso sin da subito fortemente inadeguato
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Non avrei mai pensato di scrivere un pezzo come questo, ma gli eventi che si stanno susseguendo, con particolare riferimento ai contenziosi elettorali interni all’avvocatura, impongono una riflessione anche a più vasto raggio e “a cuore aperto”, senza infingimenti, perché solo così, anche attraverso paralleli volutamente forti, si può sperare di dare avvio e impulso ad una riflessione autocritica ampia e seria, che auspicabilmente conduca ad un reale rinnovamento nella classe forense, con una connessa ripresa di autorevolezza e di credibilità.
Il modello di organizzazione che ha trovato la sua consacrazione nella legge ordinamentale 247/2012 è apparso sin da subito fortemente inadeguato, tant’è che al Congresso di Bari 2012 parte rilevante dei delegati, tra cui chi scrive, votò contro il testo bozza di riforma, non lasciandosi intimorire dagli spauracchi abilmente agitati dagli estensori e dai sostenitori di quell’elaborato. Altra parte votò a favore, pur dichiarando che il testo avrebbe necessitato di immediati interventi modificativi : proposito brillantemente abbandonato subito dopo….
Chi ha assistito – magari dall’esterno – a ciò che si è verificato soprattutto negli ultimi due/tre anni, prima, durante, ma soprattutto successivamente alle elezioni per il rinnovo degli organi di governance della professione (Consigli territoriali e Consiglio nazionale) ed ha seguito le vicende sugli organi di stampa locali e nazionali deve avere avuto la ragionevole impressione, acuita in queste ultime settimane, di una avvocatura totalmente fuori controllo, di una collettività piagata da problemi di non poco momento, determinati da una crisi senza precedenti protrattasi per anni, cui si è sovrapposta dal 2020 l’emergenza pandemica, con tutto ciò che ha comportato, priva di una guida efficace, capace di elaborare e proporre soluzioni adeguate alla gravissima contingenza attraversata. Impressione non del tutto errata.
Problemi quelli dell’avvocatura italiana, che, alla luce della crisi economica che nuovamente ha ripreso vigore, per di più accompagnandosi ad un forte ridimensionamento del tessuto imprenditoriale e del mondo del lavoro, non possono che risultare acuiti per i singoli e le loro famiglie, tenendo conto che i redditi medi sono sempre stati assai contenuti anche in epoca di “vacche grasse”.
Siamo vissuti – salvo l’eccezione di chi è abituato a guardare avanti e a prefigurare scenari a lungo termine – immersi nella rassicurante narrazione, fatta da chi ha avuto in questi anni l’onore e il compito di guidare la classe forense, di vivere un momento quasi magico, con una professione retta da un moderno e nuovo impianto, con l’illusione della riserva di consulenza e dell’equo compenso, credendo di poter gestire e vincere le dinamiche del mercato malgrado il nostro provincialismo, le ristrette dimensioni dei nostri studi, la scarsissima propensione per l’apertura ai mercati ed agli spazi di lavoro fuori confine. Abbiamo creduto di poter continuare a riprodurre nel tempo un modello di professione oramai inadeguato, che ha di fatto rappresentato una “camicia di nesso” – così chiamasi la tunica avvelenata che portò alla morte Ercole – nella quale l’avvocatura si è via via avviluppata senza essere stata messa in grado di cogliere le molte opportunità che altre professioni, più lungimiranti, hanno colto, anche a scapito nostro. Pur avendo sostanzialmente i nostri vertici scritto il testo della legge di riforma, i regolamenti ivi previsti non erano pronti ed hanno richiesto molto tempo per la loro approvazione, sono stati per lo più oggetto di fondati contenziosi e, in qualche caso, ancora mancano a 9 anni di distanza.
Ma quel che è più grave, ed oggi sotto gli occhi di tutti, è che abbiamo creduto di vivere in un sistema governato da una illuminata democrazia rappresentativa (e questo per vero non solo nell’avvocatura ma anche nella società civile, ma è altra storia), dove gli iscritti scelgono liberamente i propri rappresentanti, ai vari livelli e funzioni, e questi ultimi, una volta eletti, prestano la loro funzione con spirito di servizio e al solo fine non già di perpetuare se stessi, ma di realizzare il bene della loro comunità. Ma possiamo dire che sia davvero così?
Si tratta di un modello che si è posto come ideale e rassicurante, anche per quanto concerne la strutturazione degli organi e dei meccanismi elettorali, proprio perché per molti versi già visto e conosciuto, con pochissimi spunti realmente innovativi, ma non per questo realmente efficace e privo di snodi critici, che minano nel profondo non solo la effettiva democraticità del sistema, ma anche il raggiungimento degli obiettivi di competitività e modernità che pure venivano sbandierati alla sua approvazione, fortunosamente e arditamente avvenuta con una sorta di colpo di mano parlamentare nell’ultimo giorno dell’anno 2012.
Ci sono quindi molte incongruenze tra la rassicurante narrazione che abbiamo ricordato, che qualcuno ancora illusoriamente perpetua, e la ben più cruda realtà. E molte di esse sono incongruenze talmente sistemiche, così profondamente incidenti, da lasciar ipotizzare con qualche fondatezza, a fianco di una indifferibile revisione dell’apparato normativo esistente, anche l’opportunità di aprire la strada ad un diverso modello organizzativo.
C’è chi sostiene, e a nostro avviso con qualche fondatezza, che nei momenti di ricchezza e di relativo benessere vi sia meno attenzione alle disfunzioni sistemiche ed ai fenomeni di imbarbarimento del vivere civile, mentre in tempi di crisi e di povertà si presti ad esse, ed alla effettiva capacità di un sistema di regolare e rappresentare efficacemente coloro che è destinato a governare, molta maggiore attenzione. Che ci sia del vero parrebbe confermato anche dalla recente maggiore attenzione che gli avvocati italiani finalmente stanno riservando alla loro legge ordinamentale ed ancor più agli organi di vertice, loro attività, dinamiche, funzionamento e capacità di effettive risposte ai bisogni degli iscritti, ad ogni livello. E non è un caso, crediamo, che i movimenti che hanno posto la loro attenzione sulla Cassa Forense siano stati i primi, proprio perché maggiormente legati agli aspetti economici sempre più problematici della professione.
Al di là del titolo volutamente provocatorio, va subito chiarito che la realtà della professione forense è fortunatamente diversa da quella tratteggiata con noti stereotipi da pellicole cinematografiche ambientate in Sud America e in Messico, dove la comunità è condizionata pesantemente dal potere, dove tutto è gestito al vertice da soggetti privi di scrupoli che impongono alla popolazione una legge del terrore, senza riguardo alcuno a principi e regole.
Consentitemi, però, di esplicitare in modo estremamente riassuntivo e discorsivo – rinviando ad altra sede il richiamo puntuale e specifico a norme, pronunce giurisprudenziali e quant’altro – la mia visione della situazione, che qualcuno potrà ritenere romanzesca o fantasiosa, ma che altri potranno – credo – considerare abbastanza realistica e concreta.
Mi pare, quindi, di poter dire che oggi, ed alla luce delle norme della 247, il modello sistemico ordinamentale dell’avvocatura è un modello nel quale, a ben vedere, la collettività degli iscritti non ha alcun reale potere di controllo sugli organi di governance, perché questo controllo le è stato sottratto attraverso la costruzione – o perpetuazione, con qualche modifica – di una configurazione fortemente piramidale e verticistica, al cui vertice si colloca il Consiglio Nazionale, organo istituzionale apicale, con un enorme accumulo di poteri e di funzioni, attraverso i quali si pone in modo sempre più incisivo come soggetto che ambisce a orientare il corso degli eventi, esercitando la propria attività nel modo che reputa opportuno, con assai scarso confronto – effettivo e non puramente formale – con gli altri Organi e componenti, ed altrettanto scarso controllo.
Al di sotto, si collocano i Consigli dell’Ordine territoriali, i quali fungono da cinghia di trasmissione tra il vertice e la base costituita dalla moltitudine degli iscritti, e, con modalità le più ampie e diverse, dovrebbero raccogliere bisogni, umori e proposte dell’avvocatura, farne tesoro per quanto di competenza e trasmetterle al vertice (il tutto si badi rimanendo nell’alveo delle questioni istituzionali), mentre molto più spesso si limitano a far conoscere ed approvare al loro “corpus elettorale” le decisioni già assunte nelle sedi più alte. Vengono quindi utilizzati – o dovrebbero venire utilizzati – spazi assembleari, mezzi di comunicazione, spazi mediatici informativi, attraverso i quali promuovere ciò che gli stessi COA o loro designati, hanno appreso dall’organo di vertice o a volte con lo stesso concertato in sedi in parte non regolamentate dalla 247, quali l’Agorà degli ordini, le Commissioni e gruppi di lavoro, le Fondazioni e loro organi interni, e così via. Negli ultimi anni, a dire il vero, le modalità comunicative sono state assai ridotte – ad eccezione di eventi formativi – anche se, paradossalmente, il sempre più massiccio ricorso a modalità telematiche, complice l’emergenza sanitaria, avrebbe dovuto facilitare la massima diffusione delle informazioni e delle tematiche di attualità. Il sistema si è così reso nei fatti sempre più autoreferenziale, ed a ciò ha contribuito largamente il silenzio e la sostanziale inattività politica soprattutto a livello locale – stando a quanto noto ed alla esperienza personale – delle associazioni, le quali in un passato anche recente erano fucina di idee e di dibattiti, di critiche e proposte, che venivano sistematicamente e frequentemente diffuse agli iscritti, ma oggi hanno smussato le loro divergenze e le loro differenziazioni politiche e di “sentire” in nome di convergenze elettorali che hanno condotto molti dei loro esponenti a rivestire ruoli istituzionali, nei quali il più delle volte non hanno poi ritenuto di esprimere le posizioni che le loro associazioni, delle quali però spesso hanno conservato cariche, andavano assumendo a livello nazionale.
A lato, se ci è consentito dire così, si pongono le Unioni Regionali, peraltro scarsamente disciplinate dalla 247, quasi lo si dovesse fare per forza, ma non vi fosse una reale volontà di riempirle di contenuti. E ciò pur essendo state in passato le Unioni, o meglio alcune di esse, veri e propri motori di dibattito e di proposte, oggi messe un po’ in ombra.
Fino alla approvazione della legge, non vi era limite di mandato per gli eletti ai Consigli dell’Ordine e al Consiglio Nazionale Forense, e tale limite, introdotto con la riforma, aveva rappresentato uno degli elementi di novità maggiormente reclamizzati nelle fasi precedenti l’approvazione della legge, e a dire il vero anche al già ricordato Congresso di Bari se ne parlò come di un elemento qualificante.
Non sfuggiva a nessuno, infatti, che i tempi di avvicendamento in quelle cariche apicali locali e nazionali, lunghissimi, non di rado oltre il decennio, e il connesso lentissimo ricambio, svolgevano una funzione conservativa rispetto ai cambiamenti ed al mutato sentire dell’avvocatura e del contesto socio economico. Spesso, poi, la selezione dei candidati, e particolarmente dei soggetti da eleggere al Consiglio Nazionale, ove il meccanismo elettorale – rimasto peraltro immutato – lascia carta bianca ai COA e dove non sono previste candidature, ma un meccanismo di scelta che può definirsi “notabiliare” che blocca di fatto l’accesso a soggetti non graditi e premia coloro che risultano strutturalmente più funzionali agli assetti già consolidati, determinando così un sostanziale immobilismo nelle posizioni.
Si tratta a ben vedere di quel meccanismo di cristallizzazione delle posizioni di potere che la Magistratura che ha dovuto occuparsi del contenzioso elettorale dell’avvocatura ha censurato e sottolineato più e più volte ad ogni livello, e di cui si rinviene traccia persino nella nota e recente pronuncia della Corte Costituzionale.
Le voci libere – come ad esempio la voce dell’organismo politico OUA – sono state con un’azione costante in più tempi, ridotte al silenzio, e sostituite da simulacri pesantemente condizionati, se non altro per il venir meno delle incompatibilità.
La riforma ha come detto introdotto il limite di mandato, ma alle prime elezioni successive è stata largamente disattesa, sulla scorta di interpretazioni che, seppur lecite, sono apparse quantomeno un po’ dubbie, soprattutto laddove provenienti da coloro che avevano di fatto scritto le nuove norme e ne avevano magnificato la portata innovativa. Lo stupore ha fatto si che non vi sia stato in quell’occasione un nutrito e conosciuto contenzioso elettorale, cosa che si è però verificata in occasione della successiva tornata elettorale, quando si è constatato che molti soggetti “ci avevano preso gusto”, e non si accontentavano non solo del doppio mandato, ma neppure in alcuni casi, del terzo già svolto, e puntavano al quarto rinnovo.
Le vicende dei COA interessati al contenzioso e del CNF e dei suoi “ineleggibili” sono oramai note a tutti, grazie anche ai social e ai media che hanno consentito la divulgazione di queste notizie.
La comunità degli avvocati, il gradino più basso della piramide, esercita il diritto di voto eleggendo i componenti dei COA territoriali, ma sostanzialmente all’interno di un sistema elettorale che continua ad essere dominato da liste – pur se vietate dalla legge – e da accordi a volta anche “di cartello” che conducono all’elezione preventivamente concordata di nominativi sui quali si è formato il consenso da parte dei c.d. gruppi dominanti, che sono più o meno volontariamente condizionati dai livelli di vertice ove tali gruppi pure svolgono la loro funzione ad ai quali sono variamente interessati. Tutto si tiene, quindi, anche attraverso tali relazioni e la comune volontà di garantire una stabilità conforme al mantenimento dello statu quo.
In questo quadro ricordiamo anche la recentissima pronuncia di un CDD, che ha ritenuto legittima sotto il profilo deontologico l’iniziativa del presidente uscente di un COA, che rivestiva per di più il ruolo di presidente della commissione elettorale, di rendere pubblicamente note le sue preferenze elettorali, chiedendo via mail il favore di esprimere il voto per la lista da egli sostenuta. Ovviamente questo è solo uno dei tanti episodi simili, ed il diritto di esprimere il proprio pensiero, e gradimento, non può essere conculcato, ma si tratta di valutazioni di sensibilità e di opportunità, che se anche sfuggono all’ambito di rilevanza disciplinare, non lasciano indifferenti.
Il contenzioso elettorale ha messo in luce in maniera impietosa le contraddizioni interne del sistema, che – a tacer d’altro – non prevede adeguati bilanciamenti e controlli sugli organi e che attraverso l’esercizio della giurisdizione c.d. domestica, consente che il CNF sia stato e sia oggi interprete e giudice di situazioni analoghe a quelle che attingono suoi componenti. Consente che i tempi di fissazione delle udienze e delle decisioni siano da esso CNF scanditi. Consente che parte delle risorse economiche di cui l’ente è dotato, provenienti dall’avvocatura, siano destinate alla difesa di posizioni che, a ben vedere e a parere di chi scrive, avrebbero dovuto vedere l’ente in posizione neutra. Consente che non vi sia conoscibilità delle decisioni e delle delibere, se non a seguito di defatiganti richieste di accesso agli atti, etc.etc. (e quest’ultimo profilo riguarda anche i COA).
Il sistema poi consente, senza meccanismi di controllo, che gli organi e organismi si legittimino tra di loro a vicenda; che si proroghi la durata del mandato in scadenza sotto silenzio; che si differiscano eventi come un congresso ordinario, previsto oggi dalla legge e con una ben precisa cadenza minimo triennale, senza delibere formali e senza che ciò sia reso ufficialmente noto agli iscritti; che non si dia risposta ai molti interrogativi che qualcuno doverosamente pone, e potrei continuare.
Il modello così sommariamente descritto, che a ben vedere con la legge 247 si è rafforzato, è funzionale – spiegandolo meglio di ogni altra considerazione – al conservatorismo e all’assoluta continuità che contraddistingue il sistema, nonostante apparenti periodici ricambi, che avvengono anche con soggetti provenienti teoricamente da storie e formazioni diverse.
Chi esercita la governance, da qualsiasi parte provenga, ed ancorchè apparentemente nuovo, ha il più delle volte lo stesso interesse di chi l’ha preceduto a non modificare gli equilibri preesistenti, il cosiddetto status quo, ma solo ad integrarsi in essi, per non essere “espulsi”. E ciò a volte va oltre la singola persona, perché il sistema è tale da mettere alla prova e da forzare chiunque, spesso vincendo anche le migliori intenzioni. Diversamente si è attaccati, a volte anche sotto il profilo personale, si lascia, oppure si viene emarginati, perché “pecore nere”.
Qualora, poi, vi sia un gruppo o una personalità “nuovi”, e questi provino realmente a mettere in discussione il sistema e a dare uno scossone, immediatamente entrano in azione le contromisure “difensive” interne al sistema stesso, che rallentano ed impediscono ogni forma di intervento concreto, finché non si trova il modo di depotenziare, abbattere o del tutto omologare la spinta innovativa.
E anche l’informazione e l’uso dei media è funzionale a tutto ciò. Il settore informativo, le newsletter, i comunicati, a volte, quando ci sono, anche i giornali, sono utilizzati – se mi si consente nel proseguire le metafore – come una sorta di “braccio armato”, perché vengono utilizzati (o non utilizzati perché anche il silenzio e la mancata diffusione di informazione è dato rilevante) come veicoli di “propaganda” palese o più spesso occulta, e non già per una reale ed oggettiva informazione.
Fortunatamente l’avvento dei social ha reso possibile una diffusione di notizie capillare e da qualunque fonte, anche individuale. Ha reso possibile mettere in collegamento tra loro persone anche lontane e idee, fuoriuscendo dal consueto e preesistente circuito comunicativo, spesso in qualche modo “governato”.
La forza di questo nuovo mezzo di comunicazione e di aggregazione è stata molto sottovalutata, ma sta originando fenomeni di reazione e di aggregazione inattesi e interessanti. Quando un semplice post raggiunge in poche ore oltre seimila visualizzazioni, di fatto si è superato anche il numero di partecipanti del più riuscito congresso, e i movimenti che nascono possono avere maggior peso, anche comunicativo, di una mozione fatta approvare per acclamazione ad una platea congressuale.
Avviandoci a concludere una riflessione anche troppo estesa, ma che conto di approfondire e meglio argomentare nei giorni a venire, possiamo dire che nella società, nella politica, nel mondo produttivo, tutte le dinamiche che ho descritto sono comprensibili, visti gli interessi economici che lì sono palesemente in gioco.
Meno comprensibili appaiono, invece, in un contesto interno ad un ceto professionale, dove ciò che muove gli attori è lo “spirito di servizio” e null’altro.
Purtroppo talune condotte non aiutano di certo a dissipare gli interrogativi e il prevalere di considerazioni personali sull’interesse dei rappresentati, reale o apparente che sia, genera “mostri”, intendendosi per tali il discredito di una intera categoria, la scarsa incidenza nei percorsi che dovrebbero vederci protagonisti, dissidi interni all’avvocatura e molto altro ancora.
E se anche constatiamo che la maggior parte dell’avvocatura rimane silente e guarda quanto accade senza manifestare il proprio pensiero, fors’anche per timore delle conseguenze, o perché comprensibilmente più attenta al proprio quotidiano che a quanto descritto, siamo certi che pian piano si comprenderà che un impianto normativo adeguato e una corretta definizione degli organi, unite ad un altrettanto corretta interpretazione dei ruoli, soprattutto di vertice, sono elementi imprescindibili attraverso i quali passa inevitabilmente una ripresa di autorevolezza, di credibilità e di ruolo dell’avvocatura italiana.
Siamo certi che gli avvocati italiani, prima o poi, si renderanno conto che non possono rimanere inermi, se non occasionalmente complici, di un sistema che oggi si sviluppa sopra le loro teste, ma che in realtà li coinvolge tutti in prima persona.
Se così non fosse, allora sì che potrebbe parlarsi di una sorta di inesorabile “deriva messicana” quale quella che, sotto altri profili e in altri ambiti, sembra coinvolgere il paese.
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