Riforma penale, appello a rischio per i decreti attuativi
L’allarme del presidente dei penalisti italiani, Caiazza. «A scrivere i decreti attuativi sarà una figura autorevole come Giovanni Canzio che sull'appello ha idee opposte alle nostre»
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Non abbassare la guardia: è questo il monito che Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali, lancia in questa intervista sul tema delle impugnazioni. Se ne sta discutendo nella commissione presieduta da Giovanni Canzio, per il quale anche l’appello penale deve beneficiare di un regime di inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi di gravame simile a quello del ricorso per Cassazione. Posizione tradizionalmente contraria a quella dei penalisti.
Presidente Caiazza, in questi ultimi giorni si discute molto di riforma del Csm ma non dobbiamo scordare che sono al lavoro anche le Commissioni per i decreti attuativi della riforma del processo penale.
Sì, in effetti si sta parlando molto di Csm. Noi siamo preoccupati perché la discussione si è incentrata molto sul sistema di voto del prossimo Consiglio, come se bastasse questo a risolvere tutti i problemi di credibilità della magistratura. Si stanno purtroppo tralasciando aspetti per noi fondamentali come le valutazioni professionali dei magistrati, i Consigli giudiziari e il distacco dei magistrati al ministero della Giustizia. Si tratta di temi al centro di nostre prossime proposte di legge di iniziativa popolare. Naturalmente la nostra attenzione è concentrata ora anche sulla fase più delicata della riforma penale di Cartabia, ossia sull’elaborazione dei decreti attuativi nelle Commissioni ministeriali. Più che mai in materia processual-penalistica occorre operare con grande attenzione, perché bastano un avverbio o un aggettivo per modificare in un senso o in un altro l’attuazione di una delega.
Una partita decisiva si gioca sul tema delle impugnazioni. C’è sempre il pericolo che qualcuno voglia far rientrare dalla finestra quei limiti all’appello rimessi alla porta nel testo finale del ddl.
Fin dal testo licenziato dalla Commissione Lattanzi, abbiamo fatto notare come il tema che ci allarmava di più era proprio questo. Se per tanti versi rimpiangiamo quel lavoro, sensibilmente ridimensionato nel gioco degli equilibri politici, bisogna dire però che la relazione di Lattanzi prevedeva una radicale modifica delle impugnazioni in appello, nella forma della critica vincolata.
Questa previsione avrebbe trasformato il giudizio d’appello da secondo giudizio sul fatto a giudizio sull’atto: una equiparazione, dal punto di vista tecnico, al ricorso in Cassazione, dove oltre il 70 per cento delle impugnazioni sono dichiarate inammissibili. Prevedere il vaglio di inammissibilità anche per l’appello è uno dei maggiori desiderata della magistratura italiana. Ma grazie alla nostra opposizione e alla nostra interlocuzione politica con la ministra Cartabia e la Commissione, la critica vincolata è stata abbandonata. Si è dovuto pagare però un prezzo: con essa è sparito anche il divieto per il pm di appellare le sentenze di proscioglimento.
Quindi qual è la vostra preoccupazione?
La legge delega prevede “l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato”. Ci allarmano due espressioni: “specificità dei motivi” e “puntuale enunciazione”. Questo perché la prima è già stata inserita nella norma dalla riforma Orlando, quindi non se ne comprende la reiterazione. Mentre la seconda locuzione può significare tutto ed il suo contrario. Su questo si giocherà la partita. Per i non addetti ai lavori, possono sembrare questioni da legulei, ma stiamo invece parlando, ancora una volta, delle sorti del diritto di appello dell’imputato.
Non vorremmo che attraverso un sostantivo o un aggettivo transitasse nuovamente un recupero di fatto della critica vincolata. Dunque in questa fase delicata sarà molto importante la qualità tecnica della Commissione, e noi siamo confortati dalla presenza dell’avvocato Francesco Petrelli, direttore della nostra rivista “Diritto di Difesa” e importante pezzo di storia della nostra associazione. Siamo certi che il suo contributo consentirà di esprimere con chiarezza il punto di vista dei penalisti italiani. Ne approfitto quindi, come presidente dell’Ucpi, per augurare buon lavoro a lui, a Vittorio Manes, a Michele Passione, e a tutta la componente dell’avvocatura presente nelle altre commissioni al lavoro per i decreti attuativi.
A proposito di presenza dell’avvocatura nelle Commissioni ministeriali: ci sono state alcune polemiche per la preponderanza assoluta della componente magistratuale. Il deputato di Azione Enrico Costa ha fatto i conti: “Trentadue magistrati o ex magistrati, undici professori, cinque prof. avv., quattro avvocati”. Lei cosa pensa?
Non voglio usare la logica del bilancino. A noi interessano le idee concrete che si giocheranno sul tavolo. Certamente proprio la Commissione sulle impugnazioni è presieduta da un autorevole ex-magistrato come Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Corte di Cassazione, che proprio su questo tema negli anni, e già dai tempi della precedente commissione da lui presieduta, ha espresso con chiarezza una idea dell’appello e del ricorso in Cassazione che non condividiamo. Siamo certi però che con l’onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto prenderà pienamente atto del dibattito in commissione.
In generale lei avverte il pericolo che in nome dell’efficienza si possano compromettere i diritti della difesa?
Certamente. Io mi auguro e sono certo che la presenza dell’avvocatura servirà proprio a difendere questo principio, ossia che l’efficienza e la riduzione dei tempi non possono mai tradursi in una diminuzione delle garanzie difensive. L’allungamento dei tempi nel giudizio penale è del tutto indipendente dall’esercizio del diritto di difesa: se un fascicolo impiega due anni per passare dal gip al dibattimento cosa c’entra l’attività difensiva? Quindi mi auguro che l’Accademia e l’Avvocatura presenti nelle commissioni, e spero anche una parte della magistratura, sappiano difendere questo principio fondamentale.
Presidente, si discute molto anche di questa novità dell’Ufficio per il processo. Qual è la vostra posizione?
È uno degli aspetti che ci piace meno della riforma. Questi fondi li avremmo investiti molto più volentieri nell’aumento dell’organico dei magistrati. Vedremo come funzionerà, non abbiamo pregiudizi: sarebbe un problema se si traducesse nell’aumento di sentenze scritte non dai giudici ma da neolaureati in giurisprudenza. Inoltre questo personale precario e mediamente qualificato cosa potrà fare, quando scrive una motivazione? Andrà a ripercorrere i precedenti giurisprudenziali: noi non condividiamo questa prospettiva della “signoria del precedente”. Attraverso i dibattiti delle nostre 131 Camere penali sul territorio, abbiamo registrato in più occasioni anche perplessità da parte di alcuni magistrati.
Ultima domanda: la maggioranza si è spaccata alla Camera sulla questione del trojan. Occasione persa?
Assolutamente. Sono anche abbastanza sorpreso dall’astensione di alcune forze politiche che hanno da sempre fatto di questi temi un punto centrale delle loro battaglie in tema di giustizia. Il trojan è uno strumento drammaticamente invasivo, peraltro tutt’altro che utile investigativamente, che spesso restituisce, dalle conversazioni di assoluta intimità, del materiale avvelenato da millanterie, dalla mancanza di vincoli di dire la verità, dal desiderio di compiacere.
Da Il Dubbio
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