Professionisti in massa sui social
La comunicazione da parte degli studi professionali è un fenomeno in crescita con un sistema che va sempre più verso una grande professionalizzazione, ma si muove tra problemi culturali e qualche incertezza.
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Non si è ancora spenta l’eco dell’incidente in cui è incorso lo studio LabLaw in merito alla pubblicizzazione di un premio ricevuto e alle ripercussioni sui social. Quello che più in generale emerge grazie anche a una recente indagine di Mopi, l’associazione che riunisce gli operatori dell’area marketing e comunicazione degli studi professionali, è che il 20% degli studi legali ha un team di comunicazione strutturato e circa il 76% degli studi si serve di un’agenzia di comunicazione.
Occuparsi della comunicazione di uno studio legale è un compito delicato che richiede figure specializzate perché è un ambito dall’alta complessità tecnica. Secondo la ricerca di Mopi, il 54% di chi si occupa di questo settore ha un’esperienza di anni. Come conferma Andrea Camaiora, ceo e fondatore della società di comunicazione The Skill. «Il mercato della comunicazione legale è in fortissima crescita. Sempre più studi – spiega – sentono la necessità di dotarsi di comunicatori. Ma è un settore che richiede competenza specifica».
Peraltro è una fase in cui i temi stessi, gli argomenti su cui si comunica stanno cambiando. «Il trend che vedo adesso – spiega Gaia Francieri, presidente di Mopi – è quello della sostenibilità. La comunicazione sta diventando sempre più corporate e si raccontano i valori perché è proprio quello che il mercato richiede. Dopo la pandemia è diventato molto più diffuso spiegare quanto si è sostenibili, etici o dediti ad attività di charity. Non che gli studi non lo fossero anche prima, ma ora lo si dichiara».
Per comunicare bisognerebbe sempre partire dal codice deontologico. «Nel caso degli avvocati – aggiunge Francieri – è rigidissimo ma per assurdo sono proprio loro che a volte lo dimenticano».
In generale non basta avere una strategia, un calendario editoriale, spazi e tempi determinati, magari un blog. «Nonostante siano passati diversi anni da quando la comunicazione legale si è affacciata in Italia – commenta Isabella Fusillo, socia del gruppo Stratego, esperta di comunicazione e marketing degli studi professionali –, la strada è ancora lunga. A volte far capire a un avvocato valore e tempistica di una notizia, è difficile».
Un errore nella comunicazione non riguarda solo chi lo ha commesso, ma si riverbera sui colleghi e anche sul cliente. Comunicazione, etica e buonsenso dovrebbero procedere insieme, prima di tutto bisognerebbe sempre pensare all’impatto di ogni messaggio nei confronti dei vari pubblici.
Valutare poi gli eventuali rischi, esaminare se sono coinvolti altri stakeholder oltre al cliente. Infine avere sempre un piano di crisi per le diverse eventualità. «Mi sembra – rileva Marianna Valletta, fondatrice e direttrice di Valletta relazioni pubbliche – che ci sia ancora un problema culturale, che esista poca consapevolezza della comunicazione come materia. Nel settore è iniziata con i premi, con la comunicazione dei mandati, muovendosi nell’ambito di una community. Ma ci sono molti più aspetti, come quello della responsabilità sociale o della comunicazione verso colleghi e stakeholder».
Il rapporto con i social appare ancora complicato. Quasi tutti gli studi hanno un profilo su Linkedin, anche quelli più piccoli, dove promuovono il know how, il proprio marchio e fanno recruitment. Sono meno presenti su Instagram, utilizzato in prevalenza per promuovere il brand. Per Andrea Camaiora non sono, però, così determinanti: «Penso che la strategia di comunicazione degli studi legali debba partire dalla tv, radio e carta stampata. Sono mezzi che in termini di autorevolezza non sono ancora superati».
Ci sono poi i rischi legati all’uso dei nuovi media. «Il problema – aggiunge Valletta – non sono i social, ma la mancanza di coordinamento. A volte gli avvocati attivano iniziative senza confrontarsi con i loro comunicatori. Un professionista fatica, però, a visualizzare il rischio reputazionale perché è abituato al perimetro ristretto della propria community».
D’altro canto, «è impossibile – conclude Fusillo – pensare che i social non ci riguardino e sia sufficiente starne fuori».
Le regole da non dimenticare
1 – Bisogna essere consapevoli che una volta che il messaggio è stato comunicato, non lo si può più cancellare senza conseguenze. La rete cattura tutto ed è complicato chiederle di dimenticare
2 – Quando si comunica sui social è necessario pensare che ci si rivolge a una platea indistinta: spesso i professionisti credono di parlare a un pubblico ristretto, ma alcuni post non rimangono confinati tra gli amici e i followers
3 – La comunicazione corporate deve servire a raccontare i propri valori: soprattutto dopo la pandemia, il mercato è sempre più attento a questi aspetti
4 – L’errore più grave in uno studio è la mancanza di coordinamento tra i professionisti che vi lavorano e chi è incaricato della comunicazione. Spesso vengono attivate iniziative di informazione slegate dall’attività che si è comunemente programmato
5 – Usare i social per parlare a tutti e per comunicare anche i profili di marketing, di employer branding e responsabilità sociale del proprio studio
6 – Gli studi sono imprese: nel comunicare servono policy condivise in cui comunicazione ed etica possono procedere di pari passo
7 – Stare lontani dai social media non è una risposta. Anche l’assenza dalla rete rappresenta una forma di comunicazione
8 – I social possono rappresentare anche uno strumento per far conoscere le risorse interne dello studio e la cultura aziendale
9 – Se si è travolti da una crisi reputazionale, bisogna riconoscere l’errore davanti ai propri pubblici: non è l’errore che porta una cattiva reputazione ma come si reagisce all’incidente
10 – Dopo una crisi è necessario ricostruire una comunicazione ad hoc con un’attività dedicata per ciascun pubblico interessato alla vicenda e risanare il rapporto di fiducia con i follone
Da Il Sole 24 Ore
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