Pm fuori ruolo al Consiglio di Stato o nei ministeri.
Ecco chi può tornare in magistratura
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Spesso nei plenum del Consiglio superiore della magistratura su questo punto volano gli stracci. Quando c’è da autorizzare i cosiddetti «fuori ruolo», magistrati chiamati a svolgere incarichi anche nei ministeri e nei palazzi delle istituzioni, i consiglieri si spaccano, ma alla fine il via libera arriva sempre, nonostante le voci contrarie. Le sensibilità sui rischi di una commistione impropria tra magistratura e politica derivanti dai fuori ruolo sono aumentate anche all’interno dello stesso Csm dopo lo scandalo Palamara, eppure il tema viene affrontato solo in parte dalla riforma della giustizia approvata in consiglio dei ministri nel capitolo sulle porte girevoli. Chiuse per i magistrati con incarichi di governo che non potranno più vestire la toga. Temporaneamente bloccate per i capi di gabinetto, i segretari generali e i capi dipartimento dei ministeri, che dovranno farsi tre anni di «limbo» prima di tornare a esercitare da giudici o pm. Limbo che con buona probabilità però trascorreranno in altri uffici delle istituzioni dove dovrebbero essere collocati dal Csm. Le porte però restano girevoli per tutti gli altri fuori ruolo «minori», che sfuggono alla tagliola della riforma. Magistrati dislocati nei ministeri con qualifiche meno apicali ma non per questo meno a contatto col potere politico.
Secondo i dati del Csm aggiornati ad aprile 2021 le toghe fuori ruolo sono in tutto 161, il limite massimo è 200. Ce ne sono circa 90 solo al ministero della Giustizia, dove i dirigenti di vertice sono una minoranza, gli altri sono sparsi con inquadramenti minori nell’ufficio legislativo, nel gabinetto, all’ispettorato generale, e nei quattro dipartimenti dell’amministrazione penitenziaria, gli affari di giustizia, l’organizzazione giudiziaria e la giustizia minorile. Ma sono anche alla Farnesina, al ministero del Lavoro, a quello dell’Ambiente, alla Salute e ai Trasporti. Come se, fanno notare le voci critiche interne alla stessa magistratura, le competenze tecnico giuridiche necessarie all’interno di un ministero si possano trovare solo ed esclusivamente tra le toghe.
Posti che in alcuni casi sono finiti nelle imbarazzanti intercettazioni disposte nell’inchiesta sull’ex pm Luca Palamara. Conversazioni non penalmente rilevanti risalenti all’aprile 2018, ma descrittive di un sistema di spartizione correntizia attivo anche sugli incarichi ministeriali. Si dimise l’allora capo di gabinetto del ministro Bonafede, Fulvio Baldi, (non coinvolto nell’inchiesta), di fronte alle trascrizioni in cui Palamara lo chiamava «Fulvietto» e gli chiedeva di piazzare due magistrati al ministero (nomine non andate a buon fine).
Fuori ruolo spesso autorizzati dal Csm bypassando un criterio interno che non consentirebbe di dare il via libera se l’ufficio di provenienza del magistrato ha una scopertura di organico superiore al 20%. Una regola «interpretata» dal Consiglio quando ha compiuto alcune evidenti eccezioni, l’ultima nel caso di Elisabetta Cesqui, sostituto procuratore alla procura generale di Cassazione nominata capo di gabinetto di Orlando al Lavoro. Ma un buco nella riforma Cartabia è anche quello sui consiglieri di Stato che in molti casi non hanno bisogno di essere autorizzati come fuori ruolo per lavorare nei ministeri. E dunque fanno questo e quello. È il caso degli incarichi che non comportano un «rilevante impegno istituzionale» e «di lavoro», e che sono per questo considerati compatibili con la doppia funzione. Vi rientrano cariche come consiglieri, esperti e vicecapi di gabinetto. Di mattina in ufficio al ministero, di pomeriggio al Tar o al Consiglio a dirimere controversie tra lo Stato e i cittadini.
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