Anno: XXV - Numero 216    
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La giungla delle pensioni

L'art. 38 della Costituzione italiana prevede che «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato».

La giungla delle pensioni

Su tale previsione costituzionale si fonda il sistema delle assicurazioni sociali obbligatorie, il cui scopo è quello di predisporre una tutela rivolta sia ai lavoratori subordinati, sia ai produttori di redditi da lavoro autonomo e libero professionale, ovvero ai loro superstiti, nel momento in cui sorge il bisogno di disporre di mezzi adeguati per far fronte a eventi come la vecchiaia, l’invalidità, la malattia, la disoccupazione involontaria e l’infortunio, ovvero la morte.

Nel sistema vigente, la gestione delle forme di previdenza obbligatoria (primo pilastro) è affidata, da una parte, a un ente pubblico, l’INPS, che assicura la maggior parte dei lavoratori dipendenti del settore privato e pubblico e i collaboratori; dall’altra, agli Enti di previdenza dei liberi professionisti (Casse Geometri, Ingegneri e Architetti, Forense, Medici, Veterinari, Notariato, Dottori commercialisti, Ragionieri e periti commerciali, Farmacisti, Consulenti del lavoro, Impiegati dell’Agricoltura, FASC, ENASARCO, INPGI e ONAOSI), già enti pubblici, che hanno deliberato la propria trasformazione in enti con personalità giuridica di diritto privato, ai sensi del d.lgs. n. 509/1994, mantenendo tuttavia la finalità pubblica. A tali enti, si sono aggiunti altri enti di previdenza di diritto privato dei liberi professionisti di nuova istituzione, ai sensi del d. lgs. n. 103/1996 (ENPAB, ENPAP, EPPI, EPAP, ENPAPI, Gestione separata ENPAIA e Gestione separata INPGI), anch’essi con finalità pubblica.

A tali forme di previdenza obbligatoria di primo pilastro si affiancano le forme di previdenza complementare (c.d. secondo pilastro) su base volontaria. La diffusione della previdenza complementare è legata alla previsione che le pensioni di primo pilastro – a causa del progressivo aumento della durata della vita media e delle diverse modalità di calcolo – divengano nel tempo sempre più basse, in rapporto all’ultima retribuzione percepita (c.d. tasso di sostituzione). A tutela dei soggetti che aderiscono con i loro risparmi alle forme di previdenza complementare (fondi pensione) vigila la COVIP (Commissione di vigilanza sui fondi pensione) mentre al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sono affidati compiti di alta vigilanza e di indirizzo sulle forme pensionistiche complementari.

Altra forma assicurativa legata al mondo del lavoro è l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali gestita dall’INAIL, ente pubblico non economico, che ha il compito di assicurare un sostegno in caso di infortunio capitato ai lavoratori dipendenti che svolgono attività sottoposte a tale rischio, di garantire il reinserimento nella vita lavorativa degli infortunati sul lavoro e di realizzare attività di ricerca e sviluppare metodologie di controllo e di verifica in materia di prevenzione e sicurezza.

In considerazione della “natura pubblica” dell’attività svolta da tutti i suddetti enti (INPS, Enti di previdenza privati e INAIL), la legge affida al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze) un sistema organico di controlli, costituiti dal monitoraggio sull’attività svolta, dal vaglio degli atti più rilevanti e dalla previsione di strumenti di “controllo sostitutivo” (nomina di commissari) nei casi e alle condizioni previste dalla legge stessa (Ministero del Lavoro, Direzione Generale per le Politiche previdenziali e assicurative).

Alla giungla del lavoro, ormai frammentato e discontinuo, corrisponde la giungla delle pensioni.

L’avvento della robotica non è da sottovalutare anzi da regolamentare, anche ai fini previdenziali.

L’importo della pensione è sempre più in stretta correlazione con la contribuzione versata durante la vita lavorativa.

I contributi da versare non sono uguali per tutti i lavoratori.

Le aliquote complessive dei lavoratori dipendenti e dei collaboratori sono più elevate di quelle dei lavoratori autonomi.

Il ricorso ai prelievi di solidarietà non è più in grado di armonizzare i trattamenti perché la Corte Costituzionale, con ripetuti arresti, e in particolare con le sentenze n. 173/2016 e n. 234/2020,  ha precisato che, in linea di principio, il contributo di solidarietà sulle pensioni «può ritenersi misura consentita al legislatore ove la stessa non ecceda i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei canoni di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio “stretto” di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà».

Ed ha aggiunto che, per superare un tale scrutinio “stretto” di costituzionalità, e configurarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.), quel contributo «deve: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum», nel senso che «non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema previdenziale».

Anche la CEDU (sentenze 01.09.2015, Da Silva Carvalho, Rico contro Portogallo, 15.04.2014, Stefanetti e altri contro Italia, 08.10.2013, Da Conceição Mateus e Santos contro Portogallo, 31.05.2011, Maggio e altri contro Italia) si è occupata del problema affermando che il contributo di solidarietà potrebbe andare a colpire esclusivamente la maggiorazione, non finanziata da contribuzione, tipica del sistema di calcolo retributivo della pensione con esclusione della parte contributiva.

Per la Casse di previdenza poi la Corte di Cassazione ha escluso che l’imposizione di un contributo di solidarietà rientri nell’alveo dell’autonomia normativa per essere di competenza del legislatore nazionale.

Poiché il lavoro, qualunque esso sia, ha pari dignità costituzionale – artt. 3 («pari dignità sociale»), 36 («esistenza libera e dignitosa») e 41 («dignità umana») – e la previdenza risponde alla stessa esigenza per tutti i lavoratori (mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e di disoccupazione involontaria), credo che sia giunto il momento di riformare l’intero sistema previdenziale nei seguenti termini: il sistema pensionistico italiano ha bisogno di evolversi per affrontare i cambiamenti in atto e farsi carico delle nuove forme di lavoro.

La strada da seguire è quella della solidarietà: un unico ente pensionistico gestito e garantito dallo Stato; la pensione obbligatoria di primo pilastro dovrà essere uguale per tutti i lavoratori; ciascuno paghi in base ai propri mezzi e riceva in base ai bisogni essenziali che sono uguali per tutti.

Poi chi ha le risorse potrà costruirsi una integrazione con la pensione complementare.

Quindi occorre tassare di più le grandi multinazionali, aumentare gli stipendi, prevedere contributi per ogni tipo di remunerazione.

La sollecitazione che oggi va di moda a costruirsi la pensione complementare, a fronte della insufficienza di quella di primo pilastro, si scontra con la mancanza dei mezzi economici per farvi fronte, inutile giraci attorno. Se non hai risorse economiche, non versi nemmeno la contribuzione minima obbligatoria come, ad esempio, sta avvenendo per almeno centomila avvocati proprio in queste notti, attinti dalla procedura di recupero forzoso posta in essere da Cassa Forense dopo anni di traccheggiamento con declamazione del cd. welfare attivo in una apoteosi di ricchezza insufficiente se parametrata al debito latente!!

La riforma allo studio in CF non affronta la crisi di sistema ma cerca di rattoppare un vestito già logoro nel tentativo di guadagnare solo del tempo.

In autunno si svolgeranno le elezioni del nuovo Comitato dei Delegati e sarà la occasione storica per imprimere una svolta anche nella previdenza forense.

Ricordo che il secondo comma dell’art. 38 della Costituzione attribuisce valore di principio fondamentale al diritto dei lavoratori a che siano “preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e di disoccupazione involontaria”.

E la Corte Costituzionale con varie decisioni, in cui ha preso in esame tale precetto, lo ha considerato, come dovevasi, immediatamente operante nell’ordinamento giuridico e rilevante, in particolare, ai fini del sindacato di costituzionalità sulle leggi ordinarie.

La giurisprudenza costituzionale in materia previdenziale, con riferimento ai principali profili della materia (natura dei contributi previdenziali, adeguatezza delle prestazioni ai sensi dell’articolo 38 Cost., limitazione di benefici precedentemente riconosciuti e conseguente discrezionalità del legislatore, tutela dell’affidamento dei singoli e sicurezza giuridica) riflette, sostanzialmente, l’evoluzione della legislazione pensionistica, segnata dall’inversione di tendenza operata a partire dalla seconda metà degli anni ’80 a fronte dell’esplosione della spesa e della necessità di garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema.

Negli anni ‘60 e ’70 la Corte è impegnata soprattutto nel tentativo di dare razionalità a un quadro normativo assai complesso e articolato (ereditato in parte dalla legislazione fascista), che si caratterizza per le numerose sentenze “additive” (le c.d. sentenze che costano) con le quali, assumendo a parametro l’art. 3 della Costituzione (principio di uguaglianza formale e sostanziale), si procede ad adeguare le normative meno favorevoli a quelle più favorevoli, livellando verso l’alto prestazioni e benefici (tra le tante: sentenze n. 78/1967; n. 124 del 1968; n. 5/1969; n. 144/1971, n. 57/1973 e n.240/1994).

Per quanto concerne, specificamente, la possibilità per il legislatore di modificare in senso peggiorativo i trattamenti pensionistici, la giurisprudenza di questo periodo (sentenze n. 26/80 e n. 349/85), facendo leva sugli artt. 36 e 38 Cost., porta sostanzialmente a ritenere che il lavoratore abbia diritto a “una particolare protezione, nel senso che il suo trattamento di quiescenza, al pari della retribuzione percepita in costanza del rapporto di lavoro, del quale lo stato di pensionamento costituisce un prolungamento ai fini previdenziali, deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia mezzi adeguati alle esigenze di vita per una esistenza libera e dignitosa”. A tale riguardo la Corte precisa, in particolare, che «proporzionalità e adeguatezza alle esigenze di vita non sono solo quelli che soddisfano i bisogni elementari e vitali ma anche quelli che siano idonei a realizzare le esigenze relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta».

A partire dalla seconda metà degli anni ‘80, la Corte fornisce il proprio contributo per invertire le spinte espansionistiche insite nel sistema, valorizzando il principio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali nel quadro delle compatibilità economiche e finanziarie. Già nelle sentenze n. 180/1982 e n. 220/1988 la Corte afferma il principio della discrezionalità del legislatore nella determinazione dell’ammontare delle prestazioni sociali tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie. Le scelte del legislatore, volte a contenere la spesa (anche con misure peggiorative a carattere retroattivo), vengono tuttavia censurate dalla Corte laddove la normativa si presenti manifestamente irrazionale (sentenze n.73/1992, n. 485/1992 e n. 347/1997).

Quanto alla natura dei contributi previdenziali, la Corte, pur con una giurisprudenza non sempre lineare (frutto del compromesso tra la logica mutualistica e quella solidaristica che, allo stesso tempo, informano il nostro sistema previdenziale), ha affermato che «i contributi non vanno a vantaggio del singolo che li versa, ma di tutti i lavoratori e, peraltro, in proporzione del reddito che si consegue, sicché i lavoratori a redditi più alti concorrono anche alla copertura delle prestazioni a favore delle categorie con redditi più bassi»; allo stesso tempo, però, per quanto i contributi trascendano gli interessi dei singoli che li versano, «essi danno sempre vita al diritto del lavoratore di conseguire corrispondenti prestazioni previdenziali», ciò da cui discende che il legislatore non può prescindere dal principio di proporzionalità tra contributi versati e prestazioni previdenziali (sentenza n. 173/1986si vedano anche, a tale proposito, le sentenze n. 501/1988 e n. 96/1991).

Per quanto concerne i trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, la Corte ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, riconoscendo quindi al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali, purché ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente (sentenze n. 349/1985, n. 173/1986, n. 82271998, n. 211/1997, n. 416/1999).

La Corte costituzionale è tornata sul tema, inoltre, con la sentenza n. 116/2013, con cui ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 18, comma 22-bis, d.l. n. 98/2011, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. La Corte, assumendo che il contributo di solidarietà ha natura tributaria e, quindi, deve essere commisurato alla capacità contributiva ai sensi dell’articolo 53 della Costituzione, ha ritenuto che la disposizione violi il principio di uguaglianza e i criteri di progressività, dando vita ad un trattamento discriminatorio. Secondo la Corte, infatti, «[…] trattasi di un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L’intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi». La Corte nell’evidenziare anche come sia stato adottato un criterio diverso per i pensionati rispetto a quello usato per gli altri contribuenti, penalizzando i primi, osserva che «i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento” e che “a fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici”, con ciò portando a “un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita». La Corte aggiunge, poi, che «nel caso di specie, il giudizio di irragionevolezza dell’intervento settoriale appare ancor più palese, laddove si consideri che la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 30/2004 e ordinanza n. 166/2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro».

Inoltre, la Corte, con la sentenza n. 173/2016 ha respinto le varie questioni di costituzionalità relative al contributo di solidarietà introdotto dall’art. 1,comma 486, l. n. 147/2013 (legge di stabilità per il 2014), sulle pensioni di importo più elevato, escludendone la natura tributaria e ritenendo che si tratti di un contributo di solidarietà interno al sistema previdenziale, giustificato in via del tutto eccezionale dalla crisi contingente e grave del sistema stesso. La Corte ha anche ritenuto che tale contributo rispetti il principio di progressività e, pur comportando innegabilmente un sacrificio sui pensionati colpiti, sia comunque sostenibile in quanto applicato solo sulle pensioni più elevate (da 14 a oltre 30 volte superiori alle pensioni minime).

Si ricorda che tale comma ha introdotto un contributo di solidarietà, per il triennio 2014-2016, sui trattamenti pensionistici obbligatori eccedenti determinati limiti (materia peraltro già interessata da precedenti interventi legislativi, secondo le seguenti aliquote:

  • 6% per parte eccedente l’importo annuo complessivamente superiore a quattordici volte (ossia 90.168,26 euro annui) il trattamento minimo INPS (attualmente pari ad euro 501,89 lordi mensili per 13 mensilità) fino a all’importo lordo annuo di venti volte il medesimo trattamento minimo;
  • 12% per la parte eccedente l’importo lordo annuo di venti volte il trattamento minimo INPS (e fino all’importo lordo annuo di trenta volte il trattamento minimo);
  • 18% per la parte eccedente l’importo lordo annuo di trenta volte il trattamento minimo lNPS.

Le somme trattenute vengono acquisite dalle competenti gestioni previdenziali obbligatorie, anche per concorrere al finanziamento degli interventi a favore dei cd. esodati.

Con la medesima sentenza, la Consulta ha dichiarato la legittimità anche dell’art.1, comma 483, della richiamata l n. 147/2013 che disciplina la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici in misura progressivamente decrescente dal 100 al 40%, in corrispondenza all’importo del trattamento pensionistico, rispettivamente, superiore da tre a sei volte il trattamento minimo INPS.

La Corte ha ritenuto che questo non sia configurabile come un «blocco integrale della rivalutazione (come quello dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 70/2015), bensì una misura di rimodulazione della percentuale di perequazione automatica, rispondente a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza (come già riconosciuto nella stessa sentenza n. 70/2015)».

Da ultimo, con la sentenza n. 234/2020 la Consulta ha ritenuto legittimi la limitazione della rivalutazione automatica per il triennio 2019-2021delle pensioni superiori a determinati importi (di cui all’art. 1, comma 260, l. n. 145/2018), in quanto ragionevole e proporzionato, e la decurtazione percentuale delle pensioni superiori a 100.000 euro lordi annui (di cui all’art. 1, comma 261, l. n. 145/2018), ma non per la durata quinquennale, perché eccessiva rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato.

Sul punto, la legge di bilancio 2021 (art. 1, comma 372, l. n. 178/2020) ha autorizzato la spesa necessaria all’attuazione della richiamata sentenza (Camera dei Deputati).

 

 

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