Innocente in cella per 21 anni. Tutta colpa di una consonante
La storia di un operaio pugliese, accusato dell'omicidio di un amico per una parola dialettale interpretata male
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Una S che per gli investigatori è una T. Una consonante che ha un peso spropositato e vale una condanna per omicidio a 24 anni. E una detenzione record nell’Italia degli errori giudiziari. Sono le 8.33 del mattino del 17 ottobre 1995 quando Angelo Massaro chiama la moglie Patrizia Macripò e dice quella frase sventurata che lo scaraventa in un mare di guai. Patrizia, la consorte, è preoccupata come solo le mamme possono esserlo, perché il piccolo Antonio deve andare all’asilo e si sta facendo tardi. Ma Angelo si smarca: «Soltanto che io sto ancora a San Marzano e devo andare a portare il morto e che sto sopra la strada che devo portare a Fragagnano». Morto, anzi muert, nel dialetto di quel pezzo di Puglia. O forse no: muers, anzi muers de coso, un oggetto pesante.
Gli investigatori, che hanno messo il telefono di casa Massaro sotto controllo, fanno un balzo sulla sedia. Nessun dubbio. Per loro, quell’operaio sta trasportando il corpo di Lorenzo Fersurella, un giovane scomparso nel nulla proprio a Fragagnano, in provincia di Taranto, sette giorni prima, il 10 ottobre 1995. Fersurella era un amico di Massaro, ma a quanto pare anche un complice in poco edificanti traffici di stupefacenti e il dubbio è che sia stato fatto fuori per questioni legate a quello sporco business. Forse, le cose non stanno nemmeno così: forse Massaro, come ripeterà all’infinito, sta spingendo un muers o muerse, insomma un oggetto pesante, anzi una pala meccanica. Anche se, nota qualcuno, muers è un aggettivo e avrebbe bisogno di un sostantivo. Una T o una S, comunque, ma è inverosimile che un pregiudicato, una persona scafata, possa lasciarsi sfuggire nel dialogo con la moglie un’affermazione così cinica e gratuita, spropositata e fuori luogo mentre si sta parlando di asilo, fra un pannolino e un biberon.
«Ma poi – spiega nel volume Il libro nero delle ingiuste detenzioni – qualcuno dovrebbe spiegarmi non solo la sciagurata disinvoltura con cui avrei parlato, senza motivo o necessità, del morto ma anche perché avrei dovuto trasportare un corpo in decomposizione da una settimana, non si capisce bene da dove a dove. La verità è che io stavo spostando una pala meccanica e all’inizio, quando mi hanno contestato le accuse, non riuscivo nemmeno a capire di cosa stessero discutendo. Ero sicuro, ma così sicuro di cavarmela senza problemi che nemmeno davo importanza a questi dettagli. E ci sono voluti anni perché potessi finalmente leggere le trascrizioni di queste intercettazioni».
Questa e la successiva delle 9.13: «Eh sì, prendi e accompagnalo, perché prima di mezz’ora non ci arriviamo, che finché lo agganciamo di dietro qua». Insomma, le operazioni di spostamento del fantomatico cadavere, seguite in diretta dalle forze di polizia con le braccia conserte, sarebbero andate avanti a lungo, amplificate da queste due singolari telefonate alla moglie. Il 15 maggio 1996 Angelo Massaro viene arrestato, incastrato da quella consonante. Per il resto c’è poco o niente, anzi più niente che poco, ma non importa: quei due brani sgangherati servono per puntellare una condanna che fa di Massaro un recordman nell’Italia disgraziata degli errori giudiziari. Ventuno anni di carcere prima di comprendere, come era evidente, che quel verdetto non stava in piedi. Non aveva le basi. Poggiava sul vuoto.
«Io – s’infervora oggi lui – ho il primato italiano di carcere sbagliato. Ventun anni di branda. Altri hanno avuto detenzioni più lunghe prima che venisse riconosciuta la loro innocenza, ma sulla carta perché usufruivano di permessi o comunque erano già fuori dalla cella. Io no e mi ricordo la prima volta che ho lasciato il carcere, nel 2015: il giudice mi aveva concesso finalmente l’ok per trascorrere qualche ora fuori. Dopo pochi minuti ho chiesto a mia moglie di riaccompagnarmi dentro: stavo male, sudavo freddo, avevo le vertigini. Proprio non ce la facevo e allora sono rientrato in cella».
Ventun anni di galera, dal 15 maggio 1996 al 23 febbraio 2017. Angelo, al momento della cattura, ha 29 anni, una moglie e due bambini piccoli che diventano due fantasmi: Antonio, che quella mattina doveva raggiungere la scuola materna, ha due anni e mezzo, Raffaele solo 45 giorni. «Appena ha potuto, mia moglie li ha portati da me ma non era cosa. La situazione era troppo umiliante e poi tutti quei controlli, quelle perquisizioni. Hanno spogliato pure Raffaele e hanno aperto il pannolino».
Meglio lasciar perdere e concentrarsi sulla battaglia giudiziaria. Ma anche su quel versante non c’è niente da fare: la procura, il gip, la corte d’assise di Taranto, la corte d’appello e la Cassazione non si sposteranno mai da quell’interpretazione. Quella parola sospetta e scivolosa è la prova di un delitto che nessuno ha visto, senza movente e colpevoli. Peggio: il corpo di Fersurella non verrà mai ritrovato e tuttora l’omicidio è un mistero senza soluzione.
La pala meccanica invece viene descritta nei dettagli e salta fuori, almeno in foto, con corredo di informazioni sui lavori in corso. Ma le argomentazioni non fanno breccia nei magistrati che grado dopo grado confermano le accuse. Ci vorranno vent’anni per aprire un varco nel muro del pregiudizio. I giudici della revisione, arrivata dopo infinite sollecitazioni degli avvocati, mettono in fila le assurdità di quella storia.
La prima: «Il giorno 17 Massaro chiamava la moglie, di mattina, dicendo che stava portando un attrezzo in campagna, il bobcat, pronunciando in dialetto le parole sto portando sto muers de coso qua, a significare di stare trasportando qualcosa di grosso». Nessun equivoco, dunque. E molti dettagli sulla pala meccanica, chiamata bobcat: «Il bobcat era stato chiesto in prestito a Domenico Margherita, imprenditore con sede in San Marzano e la Macripò aveva immediatamente collegato il riferimento a questo muers de coso al bobcat che doveva servire per i lavori in campagna». Muers insomma e non muert. Una consonante pesantissima sulla bilancia della giustizia.
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