Anno: XXV - Numero 214    
Giovedì 21 Novembre 2024 ore 13:20
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Quanto costa la salute. La sanità non è un algoritmo.

I medici chiedono una svolta Chi nasce al Nord ha una speranza di vita di 60,5 anni, al Sud ci si ferma a 56,6. Gli ordini dei medici: basta all'aziendalizzazione

Quanto costa la salute. La sanità non è un algoritmo.

«Cercasi un medico, chirurgo generale o anestesista. Comunque un medico qualificato nell’area dell’emergenza». Quest’annuncio, apparso sul portale della Fnomceo, potrebbe riferirsi indifferentemente al policlinico Cardarelli o alle Molinette. Ovunque servirebbe un medico, visto che – come dice lo spot della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri – i camici bianchi e i loro pazienti ‘vivono lo stesso disagio’. I primi devono farsi bastare farmaci e garze e ai secondi tocca attendere dei mesi per una risonanza magnetica. I primi non si azzardano a fare un taglio in più di quelli prescritti dalle linee guida, ‘perché poi c’è il penale’, come ricorda Felice Achilli, chirurgo al San Gerardo di Monza. E se i secondi hanno bisogno di un intervento debbono votarsi a qualche santo, giacché 21 sistemi sanitari diversi non sono in grado di garantire quel principio dell’uguaglianza della cura che è nato con la Repubblica ed è morto con i tagli. Oggi il 58% dei pazienti over 65 con un femore fratturato è sottoposto all’operazione in 48 ore, ma le differenze da una Regione all’altra possono arrivare al 97%.

Questa sperequazione non è casuale. Siamo un Paese a due velocità: «La spesa sanitaria al Sud è più pesante del Nord, rispetto al Pil, e per contro i cittadini ricevono un’assistenza molto più insoddisfacente» ammette il presidente Filippo Anelli, il quale punta il dito contro i tagli che dal 2015 hanno depredato il Servizio Sanitario Nazionale di 11,54 miliardi di euro. Oggi, il nostro rapporto tra la spesa sanitaria e il Pil è nettamente inferiore a quello tedesco e francese, per non parlare del National Health Service di Sua Maestà. Anelli non esulta neanche per il recente accordo sulla medicina generale, che ha portato a sbloccare 300 milioni di arretrati ma non ha risolto il problema del fabbisogno – nei prossimi anni 33.000 medici di base andranno in pensione e 14 milioni di italiani resteranno scoperti – né quello sulla formazione. La Lorenzin ha messo sul tavolo sessanta milioni per le borse di studio ma le Regioni frenano: «Il principio dell’autonomia si è conservato magnificamente in questi anni, mentre non si può dire lo stesso di quello della solidarietà» commenta il presidente dei medici che dal nuovo governo si aspetta un cambio di passo. Butta lì, speranzoso, che «nel programma del Movimento 5 Stelle è prevista un’inversione di tendenza rispetto al definanziamento che ha depresso soprattutto il Sud». La Fnomceo chiede di archiviare i tagli, ridimensionare i direttori generali e riportare il controllo della spesa sanitaria nelle mani dei professionisti della salute. Cioè i medici. «Bisogna cambiare la governance e dire basta alla logica dell’aziendalizzazione della sanità» racconta Anelli. Non contesta il principio del pareggio di bilancio – introdotto dalla legge 2001 del 2012 – ma rivendica alla classe medica la responsabilità di gestire ospedali e poliambulatori. È la tesi degli Stati Generali, che riunirà nella primavera del 2019.

Certo, se il referendum non fosse andato come è andato, questa strada non sarebbe tanto in salita. A ben vedere, infatti, anche il programma del M5S più che ridimensionare i direttori generali vorrebbe sottrarli al controllo dei governatori. Senza contare che il mantra pentastellato dell’onestà si confonde facilmente con quello dell’efficienza che ha attraversato la stagione dei costi standard: il ricordo delle siringhe d’oro, delle protesi e delle garze che da un nosocomio all’altro rincaravano di dieci volte è ancora troppo vivo. Anelli, però, ribatte ai numeri coi numeri: «La corruzione c’è sempre stata, bisogna vigilare e costruire una cultura della buona gestione, perseguire i colpevoli, ma anche essere onesti nelle valutazioni dei fatti; e allora io dico che sono passati quasi dieci anni e le Regioni che dovevano attuare i piani di rientro hanno fallito, perché non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati né in termini di Lea né di servizi al cittadino. Volete la prova che questo modello non funziona? Al Sud si muore di più». Eccoli, i numeri che danno ragione ai medici: secondo Osservasalute e il Censis, i tagli alla sanità avrebbero provocato una riduzione nell’aspettativa di vita degli italiani, poiché nel 2015, undici milioni di concittadini hanno fatto a meno di curarsi per ragioni economiche mentre chi poteva si rivolgeva al privato, facendo lievitare quella spesa del 3,2%. Oggi chi spende di più nella sanità privata? I milanesi? No, i residenti in Campania e Basilicata.

Il ritardo della Sanità meridionale non si conta solo in minuti di attesa dell’autoambulanza – in Liguria ci mette 13 minuti e in Basilicata 27 -, né in attesa della visita: il 23% dei pazienti meridionali non accede a un intervento chirurgico entro 60 giorni, il 16% deve pazientare per un mese se ha bisogno di una chemio e l’attesa media di una mammografia al Nord – secondo le rilevazioni di Cittadinanzattiva – è di 89 giorni mentre al Sud è di 142. Attenzione: non è semplicemente tempo perso. È vita. La doppia velocità denunciata dai medici significa che se hai un tumore al Sud hai tre probabilità su cento in meno di sopravvivere a cinque anni dalla diagnosi. Il 3% è accettabile per risanare la Sanità? Chiedetelo a chi ha il cancro.

Ecco, l’argomento forte che può dividere l’Italia più del reddito di cittadinanza: con questo Sistema Sanitario, che costa pur sempre 114 miliardi di euro, al Sud si crepa prima. I ‘giorni perduti’ perché non si è riusciti a curare il paziente sono più di dieci all’anno e se nasci al Nord hai una speranza di vita in buona salute di 60,5 anni, mentre al Sud ti devi accontentare di 56,6. Insomma, non mancano i numeri a sostegno dell’assioma di Anelli: i ragionieri hanno fallito, prima tentando di incentivare i camici bianchi a risparmiare – «ma ci siamo rifiutati di rifiutare le cure a chi ne ha bisogno» precisa il presidente della Fnomceo – e poi trasformando il principio di appropriatezza della cura in una tagliola. Che poi il loro algoritmo non ha neanche funzionato, dice la Fnomceo, se è vero che la spesa sanitaria del Mezzogiorno è rimasta la più alta e i Lea i più bassi. Alimentando la mobilità e gonfiando il fatturato della sanità settentrionale: nel 2016, si sono spostati così 4,16 miliardi di euro, con la Lombardia al top per mobilità attiva (937 milioni) e il Lazio per mobilità passiva (542,2). Insomma, abbandonate alle loro inadempienze e con Lea irrecuperabili, nel momento stesso in cui ricevevano meno finanziamenti, perché il fondo sanitario è attribuito in base a fattori demografici che penalizzano il Mezzogiorno, le Regioni meridionali finanziavano la sanità settentrionale, portandoci al paradosso per cui oggi la spesa sanitaria pubblica pro capite in Puglia, Calabria e Campania supera la media nazionale ma le famiglie meridionali che si impoveriscono per curarsi sono il 2,7% contro lo 0,4 di quelle residenti nel Nord-Ovest.

Il risanamento ha fatto cilecca anche nel redistribuire le risorse all’interno della macchina sanitaria: «Il blocco della spesa è stato raggiunto con il razionamento dei servizi, ma mentre sono stati bloccati gli investimenti, senza peraltro razionalizzare la rete ospedaliera al Sud, e il turnover, con il risultato che abbiamo reparti senza medici – osserva il presidente della Fnomceo – hanno continuato a lievitare le spese di gestione, come se quelle non le pagasse il cittadino». L’ultima battaglia, quella per ridurre il superticket, oggi Regioni e Stato si confronteranno su come ripartire 60 milioni di euro annui per ridurre la compartecipazione per le prestazioni specialistiche – secondo Cittadinanzattiva e Fnomceo rischia di penalizzare il Sud, concentrando il 70% delle risorse in sole cinque regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana), a sfavore di Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.

Gli algoritmi dei ragionieri che condizionano la politica sanitaria sono stati messi in discussione anche dalla Consulta e dalla Cassazione, ma ai medici non basta. Non si accontentano più di essere dei ‘prestatori d’opera’. Non contestano efficienza e appropriatezza: vogliono gestirle. Promettono di realizzare gli obiettivi di salute dei cittadini. Invocano un riequilibrio Nord-Sud in termini di posti letto, personale e tecnologie. Sostengono di poter superare i localismi, evitare gli sprechi e abbattere le diseguaglianze sociali e territoriali. Oltre a trovare quel «medico, chirurgo generale o anestesista, comunque qualificato nell’area dell’emergenza» che, purtroppo, per adesso non andrà né alle Molinette né al Cardarelli, visto che il bando in questione riguarda la missione italiana in Antartide.

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