Nemmeno un professionista tra i corrotti di Bruxelles
Il Qatargate diventa una rivincita per chi si occupa legalmente di lobbying
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Lobbying. Una parola che fa paura ma che, contrariamente a quanto si possa pensare, cerca una legittimazione proprio dallo Stato. Kennedy sosteneva che quello che un suo collaboratore gli spiegava in 3 giorni un lobbista glielo trasmetteva in 10 minuti.
I lobbisti cosiddetti, i professionisti nel Public Affairs, sono i protagonisti di una piccola ma sostanziosa rivoluzione di velluto. Attorno alle attività che, con la massima discrezione, questi forzati della trattativa e delle strette di mano portano avanti, c’è un’Italia che lavora in maniera onesta ma di fatto non è tutelata dalla legge, anzi, per dirla meglio, al massimo tollerata, salvo – ovviamente – dover rispettare comunque tutti gli obblighi, i lacci e lacciuoli che lo Stato impone a chiunque e, chiaramente anche a loro. Senza nominarli mai, però. Tanto da farli sentire figli di un dio minore.
È per questo cumulo di ragioni e contraddizioni che all’improvviso, ma non troppo, a petere legem iniziano ad applicarsi direttamente proprio loro, in prima persona, mettendoci mai come stavolta la faccia.
Volti che il grande pubblico, per loro copione ed etica professionale, generalmente non conosce. E forse proprio questa necessità (oltre a una dote tipicamente italiana di costernata, finta moralità, o meglio il solito falso moralismo) crea quella patina di quasi invisibile quanto resistente diffidenza. Tra chi li scambia per massoni (magari qualcuno lo è pure, ma questo non c’entra), e chi per una sorta di simil-agenti dei servizi segreti, mentre in realtà sono solo persone che lavorano onestamente in settori nevralgici che richiedono di essere assistiti in quanto complessi e bisognosi di interazioni con i decisori. Nulla di più.
È ulteriormente paradossale, semmai, che a dissolvere il fumo di Londra che avvolge i professionisti del lobbying sia intervenuto proprio lo scandalo che in queste settimane sta scuotendo l’Europa: il Qatargate. Il giro di soldi a sacche, la corruzione in ambito istituzionale europeo che, ingiustamente, i nostri partner europei hanno già ribattezzato italian job che, tuttavia, a oggi non ha coinvolto neppure un lobbista. Nessuno di coloro che si dichiarano tali e sono iscritti a Bruxelles o alla Camera dei Deputati ai registi trasparenti dei rappresentanti d’interessi, infatti, è stato sfiorato dal sabbioso vento del deserto. Nello scandalo ci sono politici, ex politici, assistenti parlamentari e ong, ma nessun lobbista di professione. Cosicché i solitamente silenti professionisti della mediazione a oltranza, stavolta hanno deciso di perdere il tradizionale aplomb e alzare la voce. E persone arcinote solo negli “ambienti”, uomini di solito famosi per l’abitudine di sussurrare ai potenti, improvvisamente hanno trovato cittadinanza sulle pagine dei giornali, proprio per spiegare la sostanziale differenza tra loro e gli emissari degli sceicchi arrivati a Bruxelles con pacchi di banconote ad uso corruttivo. Il lobbista incassa per il suo lavoro, ma non paga i politici per alcun motivo. Un vulnus grave per le democrazie occidentali che dovrebbero poter vantare una certa superiorità, anche morale, almeno su questo tipo di entrata a gamba tesa, visto che di un regime come il Qatar si trattava.
A sostenere le ragioni e le rivendicazioni dei “professionisti degli affari degli altri” c’è anche una associazione che è in realtà un network. Si tratta di Confassociazioni Public Affairs che vede tra i principali attori, come presidente, una figura autorevole come quella di Alessandro Bertoldi, nome di caratura internazionale, stimato da occidente a oriente, grazie alle lodevoli attività del Milton Friedman Institute, uno dei pochissimi think tank duramente liberisti in Italia, e al momento apprezzato e ascoltato anche in Israele dove le sue opinioni vengono puntualmente riprese dal Jerusalem Post, oltre che negli Stati Uniti. Bertoldi iscritto con la sua AB Group, come altri, al Registro dei Rappresentanti d’interessi istituito dalla Camera dei Deputati nel 2017 sostiene da tempo che questo riconoscimento è insufficiente e che serve invece una legge quadro che regoli la professione, ma anche che metta fuori gioco gli abusivi e i disonesti, che costringa gli Stati stranieri e chiunque voglia fare lobbying ad affidarsi ai professionisti invece che ai faccendieri talvolta criminali.
È come quello che accade tra i tassisti o, ancora più grave, tra gli odontoiatri. Come dire: serve una laurea e un’abilitazione per curare i denti. Non basta avere un’automobile per esercitare il servizio taxi. E non è sufficiente avere mani e ganci ovunque per attrarre e direzionare interessi, anzi, public affairs. Poi capita di ritrovarsi a bordo coi soldi sotto il materasso, ma il lobbista è proprio colui che è capace di convincere il decisore senza pagarlo, con le ragioni e le argomentazioni migliori.
Capita. Ma non si dica che i lobbisti seri non avevano avvertito sui rischi scivolosi di chi tratta, compra e vende non solo senza regole ma senza etica o meglio, banalmente, facendo il delinquente mascherato.
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