L’elezione diretta del premier l’hanno voluta tutti (anche se credono di non saperlo)
Arriva in fondo a trent’anni di campagne antiparlamentari, di retorica della parola ai cittadini fatta di sbornia maggioritaria, primarie (vero Pd?), democrazia diretta. Chiamarlo fascismo equivale a rimettere il dentifricio nel tubetto. E visto com’è stata eletta, Schelin è l’ultima che può parlare
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Se il premierato è quel mostro che viene dipinto, a metà strada tra un pasticcio e un golpe, occorre chiedersi come ci siamo arrivati. Cioè da dove spunta l’idea di far scegliere direttamente il popolo laddove, per tre quarti di secolo, la guida del governo è stata decisa in Parlamento e dal capo dello Stato. La domanda serve a capire se siamo in presenza di una svolta autoritaria portata dalla cicogna; o invece l’elezione diretta è una riforma con molti padri e madri, che ci deriva da trent’anni di campagne anti-Casta, di rottamazioni qualunquiste e di predicazioni anti-parlamentari. In questo secondo caso, prima di indignarci, dovremmo fare l’esame di coscienza. Ma per sapere con certezza cos’è accaduto bisogna riavvolgere il nastro e mettere in fila qualche data.
La prima elezione diretta nella storia repubblicana fu quella dei sindaci, varata per legge il 25 marzo 1993, in piena Tangentopoli. La Repubblica barcollava sotto i colpi di Mani Pulite; Mario Segni aveva promosso, tra gli altri referendum, un quesito per dare l’ultima parola ai cittadini in tutti i Comuni da 5mila abitanti in su. Nell’intento di tagliargli la strada, la maggioranza di allora votò la legge 81 (ma pure l’opposizione era d’accordo) che vige tuttora: se un sindaco si dimette, bisogna tornare a votare. Sembrava l’alba di un nuovo giorno, la rondine che annuncia il Sindaco d’Italia. A suo modo in effetti lo fu.
Quello stesso anno, il 4 agosto 1993, fu varato il sistema maggioritario con la legge che porta il nome del presidente attuale (Mattarellum). Addio ai compromessi, si disse, e basta con gli inciuci; bisognava schierarsi, o di qua o di là. Prese piede il bipolarismo muscolare e, con esso, l’elezione diretta dei leader di partito, qualcosa di assolutamente impensabile nella vecchia Repubblica partitocratica. Per capirsi: i vari Aldo Moro, Ugo La Malfa, Pietro Nenni, Enrico Berlinguer e perfino Giorgio Almirante venivano tutti selezionati al termine di un faticoso tragitto che traeva origine dai congressi di cellula o di sezione, proseguiva a livello provinciale con la scelta dei delegati che poi si riunivano nelle assise nazionali le quali, a loro volta, eleggevano un comitato centrale (la denominazione esatta conta poco). Il segretario doveva scalare questa piramide democratica, senza scorciatoie plebiscitarie.
La sbornia maggioritaria travolse tutto. Anche qui c’è una data scolpita sul marmo: 16 ottobre 2005. Quel giorno in Italia si tennero per la prima volta le consultazioni per individuare lo sfidante del Cav. Vi parteciparono 4 milioni di elettori della sinistra e fu scelto Romano Prodi. Le primarie vennero presentate come un modello super-democratico che prendeva esempio dagli Stati Uniti d’America. Messaggio nemmeno troppo subliminale: eleggere direttamente il leader non è più tabù. Il testo base delle primarie scriveva, papale papale: “È la prima volta che le regole fondamentali riguardanti il governo vengono affidate direttamente ai cittadini”. Nessuno a sinistra ne menò scandalo, anzi.
Non ci fu un solo esponente Pd che dicesse: “Attenti, andiamoci piano, qui si rischia la dittatura” o allarmi sulla tenuta del sistema democratico. Anzi, da Massimo D’Alema a Walter Veltroni era tutto un peana all’elezione diretta del presidente, sul modello francese. Nel frattempo era scattata la campagna anti-Casta, col geniale bestseller di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella che nel 2007 vendette 1 milione 200mila copie. Il Parlamento finì nel vortice. Iniziò una svalutazione sistematica della democrazia rappresentativa che ebbe vari protagonisti. Silvio Berlusconi a un certo punto propose di abolire le Camere e di far votare i provvedimenti ai soli capigruppo per guadagnare tempo e impedire (sua la metafora) che da “agili destrieri” le proposte di legge del governo si trasformassero strada facendo in “ippopotami” o bestie del genere. Il Parlamento come impiccio per chi è unto dal popolo. Infine arrivò Beppe Grillo.
Dietro copione di Gianroberto Casaleggio, l’Elevato puntò sulla democrazia diretta, sulla piattaforma Rousseau e sul mito dell’Agorà ateniese dove i cittadini vivono in assemblea permanente per dirimere gli affari di Stato, non avendo altro da fare nella vita, per esempio il lavoro. Il guaio è che molti gli hanno creduto. La voglia di bypassare il Parlamento si condensò nella “riforma Fraccaro” che, tra le altre novità, voleva introdurre i referendum propositivi per consentire alla gente di fare da sé. Nella sistematica demolizione della rappresentanza parlamentare, si accarezzò il “vincolo di mandato” e addirittura Grillo, nei suoi voli pindarici, immaginò di sorteggiare i deputati anziché eleggerli, adottando il criterio del campione statistico. Ma se si guarda indietro, non è stato l’unico: da decenni, ormai, viviamo immersi nei sondaggi, negli indici di gradimento, nei televoto e negli Auditel che lusingano il popolo sovrano, gli danno importanza, lo vezzeggiano, lo fanno sentire al centro dell’universo cosicché poi vai a spiegare che il premier non può essere scelto direttamente ma deve passare al vaglio delle Camere o del Quirinale, come asserisce la Costituzione, altrimenti si squilibra la bilancia dei poteri. Per non dire dei social dove spuntano i cuoricini, si contano i like e impazzano gli influencer che sono i nuovi campioni del malanimo collettivo.
Cosicché in fondo al piano inclinato, quando il dentifricio è già fuori dal tubetto e rimettercelo non si può, l’elezione diretta del premier sembra la conseguenza logica, quasi naturale, della sbronza populista cui tutti hanno dato una mano. Meloni ne raccoglie i frutti con una riforma su cui il centrodestra nemmeno ha trovato la quadra (servirà un apposito summit dei leader quando Giorgia sarà tornata dal viaggio in Giappone). Criticarla è lecito, anzi doveroso. Ma svegliarsi di colpo e gridare al fascismo sarebbe eccessivo. Nel caso di Elly Schlein francamente ipocrita, dal momento che lei è figlia di questa deriva: eletta segretaria con le primarie, direttamente dagli iscritti e perfino da gente che passava di lì per caso.
di Ugo Magri per Huffpost
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