Anno: XXV - Numero 214    
Giovedì 21 Novembre 2024 ore 13:20
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E se i magistrati pagassero di tasca loro per le ingiuste detenzioni?

A fronte di circa 930 milioni di risarcimento pagati dallo Stato, un solo magistrato è stato condannato per danno erariale per euro 10.425,68 dalla Corte dei conti.

E se i magistrati pagassero di tasca loro per le ingiuste detenzioni?

Le detenzioni ingiuste e le sentenze sbagliate sono quasi sempre causate da una pluralità di fattori e tra questi l’errore umano è solo uno dei tanti possibili e non necessariamente il più importante.

Ritengo che non basti più contarli ma sia necessario avanzare proposte per trovare soluzioni allo stillicidio di errori giudiziari e ingiuste detenzioni che in Italia, tra il 1992 e il 2022, hanno coinvolto ben 30.689 persone. Numero considerevole che si traduce in più di mille persone che ogni anno sono state indennizzate dallo Stato (cioè da tutti noi) per essere state vittime di ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L’esborso complessivo è di poco inferiore a 930 milioni di euro, dati del Ministero della Giustizia.

Badate bene che il numero rappresenta la punta di un immenso iceberg, in quanto solo il 24% delle domande di riparazione per ingiusta detenzione viene accolta. Questi sono i dati incontrovertibili che rendono palese che non si tratta di “errori fisiologici” presenti in ogni sistema giustizia.

In primo luogo è necessario fissare l’attenzione sull’abuso delle misure cautelari, crediamo sia nella consapevolezza comune che esso dipenda non solo e non tanto dalla sciatteria e dalla negligenza di pm e giudici ma, in misura ben più rilevante, da cause normative (tra queste le plurime presunzioni legali di pericolosità che imponevano il ricorso alla misura carceraria e che la Corte costituzionale ha smantellato in buona parte ma mettendoci anni), da orientamenti interpretativi di merito e di legittimità, da spinte esplicite della politica (sulla base di slogan rozzi ma efficaci come “tolleranza zero”, “che marciscano in carcere e si buttino le chiavi” e via discorrendo), da aspettative sempre più basiche di un’opinione pubblica drogata da quegli slogan che finiscono per esercitare una pressione crescente sulla magistratura una buona parte della quale, presto o tardi, si adegua alla direzione del vento e agisce di conseguenza.

Se ci spostiamo sul piano dei processi e della possibilità che le valutazioni dei giudici siano inficiate da errori anche gravi, la lista dei fattori causativi si allunga di parecchio: centralità della pubblica accusa (che, peraltro, non è ancora riuscita a trovare un corretto equilibrio nel rapporto con la polizia giudiziaria, oscillando tra la dipendenza acritica e la pretesa di guidarne l’azione verso risultati predeterminati), noncuranza o addirittura ostilità verso l’attività difensiva, contraddittorio ridotto all’osso, scarsa familiarità dei giudici con i saperi esterni al processo e quindi, per esempio, cattivo uso della prova scientifica.

E ancora, se ci spostiamo dalle indagini preliminari e dal dibattimento di primo grado alle fasi successive, possiamo contare su dati di eloquenza impressionante: più della metà delle decisioni di primo grado sono riformate in appello, in prevalenza su aspetti di dettaglio ma sono comunque numerosi i casi in cui la riforma è sugli aspetti essenziali. Eppure, a dispetto di questa evidenza e col pretesto di abbattere l’arretrato cronico della giustizia penale, si sta rendendo sempre più disagevole l’accesso ai gradi superiori, soprattutto a danno degli accusati che non possono permettersi difese efficienti.

Spostiamoci infine sul versante della Cassazione, e qui mi basta dire quello che sanno pure le pietre: la nostra Suprema Corte ha costruito barriere quasi invalicabili tra se stessa e il cuore dei processi, al punto che sette ricorsi su dieci (diventano otto se si parla solo dei ricorsi principali, cioè quelli attinenti alla colpevolezza), sono dichiarati inammissibili. Tutte queste parole per dire che la sostanziale irresponsabilità del singolo magistrato per il singolo errore nel singolo procedimento ha sicuramente il suo peso ma il problema è assai più esteso.

Una prima misura da prendere per arginare la marea dei numeri delle ingiuste detenzioni è responsabilizzare la magistratura. La sostanziale deresponsabilizzazione disciplinare ed erariale dei magistrati è una delle cause primarie (non l’unica) delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari.

A fronte di ciò si registrano delle iniziative velleitarie che non modificano nulla in merito all’eliminazione delle cause degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni. Ad esempio, l’idea di Enrico Costa di raddoppiare il tetto massimo degli indennizzi per ingiusta detenzione: dai circa 516 ila attuali a un milione di euro. La proposta di Enrico Costa salutata come una panacea si è persa nei meandri del Parlamento: in sintesi porterebbe i minimi previsti per un giorno in custodia cautelare dagli attuali 235,82 euro a 471,64 euro; e gli attuali 117,91 euro per un giorno agli arresti domiciliari diventerebbero 235,82 euro.

La proposta, encomiabile sotto l’aspetto economico teso al ristoro dei danni subiti dagli innocenti, non risolve il problema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni. Aumentare gli indennizzi senza provare a modificare la causa delle ingiuste detenzioni appare uno specchietto per le allodole.

Segnaliamo che la Corte dei conti ha accesso un faro e posto l’attenzione sulla mancanza delle azioni di rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati per il recupero delle somme pagate per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari. Pensate che a fronte del pagamento della somma di circa 930 milioni da parte dello Stato, un solo magistrato è stato condannato per danno erariale per euro 10.425,68 dalla Corte dei conti, una pecora nera che non merita di rimanere da sola.

Invece che pensare all’aumento degli indennizzi che non potranno mai “risarcire” il malcapitato di turno che da innocente conosce il carcere, perché non si prova a responsabilizzare la magistratura? In primo luogo prevedendo che il ministero dell’Economia, tutte le volte in cui provvede al pagamento di un indennizzo per ingiusta detenzione, proceda immediatamente ad inviare nota alla Procura della Corte dei conti competente “per l’esercizio da parte dello Stato di un’azione di rivalsa nei confronti del soggetto al quale risulti imputabile l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione nei casi previsti”.

Proviamo a riflettere su un dato inquietante, i 30.689 innocenti indennizzati dalla Stato per errori giudiziari o ingiuste detenzioni. Su questi dati la Corte dei Conti ha posto l’attenzione evidenziando la mancanza delle azioni di rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati per il recupero delle somme pagate per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari.

La magistratura risulta essere una sorta di isola felice dove l’operosità e l’efficienza regnano sovrane, eppure la realtà e i dati dicono il contrario. Quali sono gli ostacoli legislativi e di sistema che impediscono alla magistratura contabile di intraprendere le azioni di rivalsa? È necessario gettare un faro sulla questione per individuare “casi nei quali possano ravvisarsi i presupposti per l’esercizio da parte dello Stato di un’azione di rivalsa nei confronti del soggetto al quale risulti imputabile l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione nei casi previsti”. Parole della Corte dei Conti.

Oltre la verifica dell’eventuale danno erariale, sarebbe necessaria una riflessione sulla responsabilità disciplinare dei magistrati, come pure il ricordato onorevole Costa ha più volte chiesto: di fronte a tali situazioni che colpiscono le famiglie, l’attività lavorativa, la credibilità di soggetti che entrano nel sistema carcerario o la cui libertà personale viene ingiustamente limitata, può essere ammissibile che a pagare per gli errori del magistrato, in sede di valutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure detentive, sia sempre e soltanto lo Stato (cioè, in ultima analisi, i cittadini stessi)?

Se lo Stato riconosce che c’è stata un’ingiustizia, è corretto che affronti e valuti che cosa non ha funzionato: se qualcuno ha sbagliato, se l’errore è stato inevitabile, se c’è stata negligenza o superficialità, se chi ha sbagliato deve essere chiamato a una valutazione disciplinare. I magistrati oggi non rispondono degli errori commessi. Troppo spesso, infatti, accade che le ragioni che hanno determinato errori, anche gravi, non siano rilevate, come occorrerebbe, sul piano disciplinare, o che restino prive di conseguenze in sede di decisione sugli avanzamenti di carriera.

L’affermazione trova eloquente riscontro nell’ultima Relazione (anno 2022) che il Ministero della Giustizia ogni anno invia al Parlamento e che, come si suol dire, si commenta da sola. In sintesi: l’abuso del potere cautelare non ha praticamente colpevoli.

Il tema sotteso a questa riflessione è la necessità di abbandonare la cultura della comoda deresponsabilizzazione a favore di un più diretto e penetrante controllo sull’operato del magistrato, che – non va dimenticato – in questa materia applica misure che incidono sui più importanti diritti costituzionali delle persone.

La situazione attuale prevede che il magistrato può essere punito disciplinarmente per l’adozione di provvedimenti restrittivi della libertà personale non consentiti dalla legge ma solo se siano frutto di negligenza grave e inescusabile. In tutti questi casi il legislatore priva di rilievo disciplinare l’episodicità del comportamento o lo rende punibile solo se connotato da gravità o da negligenza del grado più elevato, o da intenzionalità o, finanche, solo se abbia leso diritti personali o patrimoniali (talvolta richiedendo aggiuntivamente la finalizzazione indebita della lesione). Lo stesso legislatore si premura in un caso di introdurre una presunzione di non gravità, ancorandola a periodi temporali. Introduce infine una clausola generale di salvezza (articolo 3-bis) che esonera da responsabilità disciplinare i magistrati in tutti i casi in cui i fatti loro potenzialmente addebitabili siano di scarsa rilevanza.

Riporto un esempio di decisione della sezione disciplinare del Csm nella quale è stata applicata la clausola generale di salvezza: “Non integra l’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni per grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile la condotta del Gup che, all’atto di definizione del procedimento, abbia omesso di disporre la scarcerazione di un imputato per decorrenza del termine allorquando: l’episodio si colloca quale evento del tutto isolato nell’arco di una carriera connotata da grande laboriosità ed impegno; non è derivato dal fatto alcun clamore mediatico; il fatto è emerso occasionalmente a seguito di ispezione ordinaria; l’imputato non ha sollevato alcun reclamo in ordine all’avvenuta scadenza del termine trattandosi di un fatto di scarsa rilevanza (sentenza n. 124/2019)”.

Non è azzardato allora intravedere nell’ordinamento disciplinare dei magistrati aspetti protezionistici di non trascurabile ampiezza, soprattutto se confrontati con la disciplina che regola la stragrande maggioranza degli altri dipendenti pubblici. Ad esempio, il vigente codice disciplinare per i dirigenti pubblici sanziona la loro inosservanza degli obblighi previsti in materia prevenzionistica anche se non ne sia derivato alcun danno o disservizio per l’amministrazione e gli utenti, assoggetta a sanzione le condotte non corrette nei confronti di terzi e gli alterchi nel luogo di lavoro senza alcun distinguo per abitualità o gravità, e lo stesso prevede per l’inosservanza di direttive, provvedimenti e disposizioni di servizio. Ed ancora “la intenzionalità del comportamento, il grado di negligenza ed imperizia, la rilevanza della inosservanza degli obblighi e delle disposizioni violate” sono considerati solo come parametri per modulare adeguatamente le sanzioni, non certo per escludere il rilievo disciplinare.

È una differenza stridente che abitualmente si tende a giustificare sulla base del particolare statuto che è necessario assicurare ai magistrati allo scopo di tutelarne l’indipendenza, ma non si comprende davvero come l’esonero da responsabilità nei casi sopra descritti sia, anche solo lontanamente, connesso a quel valore.

Come accennato in precedenza, nella scorsa Legislatura era stato presentato alla Camera, da Enrico Costa, un progetto di legge che prevedeva di introdurre, sulla disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, tra gli illeciti disciplinari il fatto di aver concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione ai sensi degli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale.

Si dovrebbe ripartire da lì e accompagnarla con la recente proposta di legge n. 631 depositata ancora da Costa, il 24 novembre 2022, che prevede la “Modifica all’articolo 315 del codice di procedura penale, in materia di trasmissione del provvedimento che accoglie la domanda di riparazione per ingiusta detenzione, ai fini della valutazione disciplinare dei magistrati”. La proposta prevede che al momento dell’accoglimento della domanda di ingiusta detenzione venga trasmessa una nota all’ufficio preposto alla verifica di una eventuale infrazione disciplinare da parte dei magistrati.

Sembrerà strano, ma ad oggi nessuno sembra sapere quello che accade normalmente nelle aule di giustizia di questo Paese: le Procure della Corte dei Conti si giustificano dicendo che non ricevono segnalazioni, e la sezione disciplinare dei magistrati idem, e allora proviamo a eliminare il velo che ammanta tanta ipocrisia.

Il tutto per sfatare l’aforisma di Borges: “Per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli”.

Il Dubbio

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