L’eredità di Falcone tradita da un’antimafia autoreferenziale e di potere
Gli strumenti ideati nel 1991, si sono trasformati in una sorta di e grimaldello per fondarvi una egemonia politica, culturale e mediatica e, quindi, di potere.
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A 32 anni dall’eccidio, un tempo enorme in verità, probabilmente è corretto porsi una domanda: ma esiste davvero un’eredità di Giovanni Falcone? La sua vita, le sue idee hanno veramente scavato un solco nella vita del paese e nella magistratura italiana oppure solo la sua morte è stata l’inizio di un ciclo opaco con cui siamo ancora oggi chiamati a far di conto?
Giovanni Falcone, probabilmente, muore più per ciò che aveva portato a compimento nel 1991 che per la sola conclusione, nel gennaio del 1992, del suo maxiprocesso di anni prima.
Lo ha sussurrato agli inquirenti, prima di morire, persino Matteo Messina Denaro dubitando di quella scontata e tralaticia causa dell’attentato di Capaci e fornendo, così, un’indicazione che non deve essere fatta cadere troppo in fretta. L’attività del magistrato dal febbraio 1991 (quando era ancora procuratore aggiunto a Palermo) sino alla morte (come direttore generale del ministero della Giustizia) è il fulcro, la base, il solstizio che illumina praticamente tutta la legislazione antimafia. Non c’è ambito, dallo scioglimento dei consigli comunali alla protezione dei pentiti, dai reparti speciali delle forze di polizia alla direzione nazionale antimafia, dal contrasto ai sequestri di persona alle intercettazioni che non abbia a proprio fondamento l’azione di Giovanni Falcone, quella di Claudio Martelli, ministro di Giustizia, e tra le quinte quella di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica. Una triade di spettacolare e irripetibile efficacia che, a dispetto di ogni resistenza e di ogni ostacolo, in appena un anno organizzò la più potente e vittoriosa macchina da battaglia mai messa in campo contro le cosche mafiose. In confronto l’epica del famoso prefetto Mori – il cosiddetto prefetto di ferro di mussoliniana memoria – impallidisce se si guarda alla sorte spettata ad almeno un paio di generazioni di mafiosi, praticamente quasi tutti morti all’ergastolo o condannati a lunghissime pene.
Che fine abbiano, poi, fatto le mafie nel 2024 è questione che ricade per intero nella responsabilità di altri che sembrano aver pericolosamente smarrito le tracce di un fenomeno che ha in radice mutato pelle e, al momento, appare francamente intangibile e sconosciuto se non per via di sconfortanti ipotesi e talvolta sconclusionate interviste.
Cose di cosa nostra, il libro scritto dal giudice ucciso con Marcelle Padovani, è e resta un compendio preciso, minuto, dettagliato dello “stato” della criminalità mafiosa e, ancora oggi, si staglia come un’opera irripetibile; certo irraggiungibile da una florilegio di evanescenti e autocelebrative pubblicazioni che si lanciano in ipotesi e in iperboli, sapendo dire poco o nulla di concreto e verificabile su quel mondo.
Ecco l’eredità lasciata in vita da Giovanni Falcone – quel sofistico plesso di norme rivoluzionarie e di soluzioni organizzative avanzate – appare a tratti dispersa e consunta, annacquata da celebrazioni prive di una capacità propulsiva e diluita in pure commemorazioni, in gran parte retoriche, se non dolorosamente presenzialiste.
Per oltre tre decenni, praticamente sino a ieri, la soluzione più semplice è apparsa quella di innestare sull’albero lasciato vitale dal magistrato ucciso ulteriori rami. Così competenze, accessi, coordinamento, cooperazioni, comunicazioni hanno generato un gigantesco moloch documentale e informativo che nutre l’enorme macchina organizzativa che sono oggi gli apparati antimafia. Un pulviscolo di uffici, di corpi di polizia, di uffici centrali e distrettuali, di sedi prefettizie, di articolazioni degli istituti bancari che cannibalizza ogni minuta informazione e cerca di espandere il raggio di influenza degli apparati antimafia sino a giungere alla soglia del pericolo dei dossieraggi sulla politica e non solo. Grazie anche alle informative prefettizie e alle misure di prevenzione (portate qualche anno or sono a ridosso dell’evasione fiscale e, poi, della corruzione e dei reati contro la pubblica amministrazione) praticamente non esiste ganglio della vita sociale, politica ed economica del paese che non possa essere drenato al crivello fine degli strumenti che, ideati e affinati nel 1991, si sono trasformati in una sorta di efficiente grimaldello per fondarvi una profonda operazione di egemonia politica, culturale e mediatica e, quindi, di potere.
Si è, in parte, creato un ceto sacerdotale che, anziché procedere come suo dovere alla puntuale denuncia e alla conseguente estirpazione delle collusioni e delle complicità, si è specializzato in una sorta di perenne vaticinio sulle possibili, terribili conseguenze dell’azione delle cosche e che reclama l’olocausto in sacrificio di ulteriori competenze.
Un indecifrabile oracolo di Delfi che si destreggia con un linguaggio allusivo, evocativo, a tratti esoterico ed iniziatico che non può essere compreso dai più, dai deboli, da quelli che vivono davvero il dramma della sopraffazione. Alla descrizione piana, diretta, semplice, comprensibile dell’azione mafiosa e dei suoi polimorfismi generata da Sciascia e Falcone, si è sostituita l’intermediazione di un ceto di chierici composto promiscuamente di toghe, giornalisti embedded, improvvisati docenti universitari, scrittori di nicchia, associazioni antimafia che si sono arrogati il compito di decifrare i segni oscuri delle cosche, di interpretarne le dinamiche occulte e che vaticinano sulle sorti della democrazia. Alla legittimazione costituzionale che trova fondamento solo sull’efficacia del contrasto e sulla sua assoluta indispensabilità emergenziale, si è sostituita l’autosufficienza degli apparati che pretendono di accrescere esponenzialmente la propria capacità di intrusione in nome di politiche ormai solo di asserita prevenzione della minaccia, con una repressione quasi sempre deludente nei suoi reali risvolti.
La morte di Falcone ha avviato un percorso che, in parte, ne ha tradito la vita, dissipando forse un bene prezioso.
Alberto Cisterna, magistrato su Il Dubbio
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