Quelle bandiere regionali che sfidano l’Italia
Mi hanno disturbato non poco quelle bandiere regionali sventolate provocatoriamente da esponenti della Lega in occasione dell’approvazione, da parte della Camera dei deputati, del disegno di legge sull’autonomia differenziata.
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Chi ha avuto l’amabilità di leggere quel che vado scrivendo da tempo sa bene che io ho il culto della varietà, tutta italiana, delle storie politiche, culturali, artistiche e dell’ambiente dei singoli territori. Ed ho scritto più volte che la ricchezza di questo nostro meraviglioso Paese, consegnato dalla natura alla sua unità perché protetto dalle Alpi e circondato dal mare, un caso unico nella geografia internazionale, è data dalla ricchezza dei singoli territori. Perché molte regioni non hanno una forte connotazione storica, a cominciare dal Lazio, una regione inventata perché comprende territori culturalmente appartenenti alla Toscana, come la provincia di Viterbo, all’Abruzzo, come Rieti, alla Campania come Latina. Ed ho sempre detto che la realtà italiana è molto percepibile nella sua varietà soprattutto nelle province che sono l’espressione più autentica dei territori.
Questo mio giudizio difendo da tempo perché considero le regioni enti costosi quanto inutili. Perché non diversamente può essere definito un ente il cui bilancio per oltre l’ottanta per cento è alimentato da risorse trasferite dallo Stato, cioè la spesa sanitaria. Per cui se si considera un minimo di oneri di funzionamento, per gli apparati e le retribuzioni del personale, rimane poco più di un 5% libero che non giustifica l’esistenza di un ente autonomo.
L’istituzione delle regioni è stato un grande errore che ha creato un centralismo molto più pervasivo di quello dello Stato. Perché, come l’esperienza insegna, essere sindaco di un colore diverso da quello del Presidente della Regione mette in forse notevolmente la vita di un’amministrazione comunale. Per contro i prefetti, funzionari con alto senso dello Stato non avevano l’abitudine di disturbare più di tanto i sindaci di un colore diverso da quello del governo centrale.
Inoltre c’è da dire che l’autonomia differenziata che proponenti e fautori presentano come il toccasana anche per le regioni del Sud, trascura un dato fondamentale, l’arretratezza dei sistemi di trasporto viario e ferroviario delle regioni meridionali e delle isole che certo non può essere imputata alle amministrazioni regionali. Ricordo spesso che Camillo di Cavour, il più grande uomo politico italiano e forse europeo, come scrive Steven Runciman, il grande storico inglese, aveva immaginato nel 1846, in un bellissimo articolo pubblicato sulla Nouvelle Review di Parigi, che le ferrovie avrebbero unificato l’Italia. Ed io, quando mi riferisco a questo scritto, ricordo anche che se “Cristo si è fermato ad Eboli”, come titola un bel libro di Carlo Levi, anche l’alta velocità si è fermata da quelle parti. Per raggiungere Bari da Roma s’impiega il tempo necessario per andare da Roma a Torino, mentre per andare da Trapani a Catania occorrono 9 ore con, mi dicono, quattro cambi di treno, alcuni dei quali marciano su un solo binario e sono ancora con motrici a gasolio, le famose “littorine”.
Di cosa parliamo se vogliamo che il Sud, che è una grande risorsa per il Paese, non solo d’intelligenze, raggiunga obiettivi di crescita adeguati alle sue potenzialità con una economia che è basata molto sull’agricoltura e sulla trasformazione dei prodotti della terra e sul turismo. Per crescere e concorrere all’economia nazionale noi dobbiamo portare al Sud e nelle isole grandi le infrastrutture necessarie ad assicurare efficienti trasporti viari e ferroviari come diceva Cavour che voleva trasferire le merci dell’agricoltura meridionale al Nord e in Europa e portare i turisti in giro per questa meravigliosa Italia. Quindi l’autonomia differenziata, che io comunque non vedo perché contrario alle regioni, metterà in crisi politicamente ed elettoralmente i partiti di governo, a cominciare da Fratelli d’Italia che, come ha scritto questa mattina su La Verità, Marcello Veneziani, “nega la storia della destra nazionale e sociale e la sensibilità della gente che vota per Fratelli d’Italia e un po’ anche per Forza Italia”. È chiaro che si è dovuta accontentare la Lega ed è noto che questa riforma nasce dalla pessima revisione del titolo Quinto della Costituzione varato per soli tre voti nel 2001 dalle sinistre che, intenzionate in questo modo a bloccare l’espansione della Lega, hanno invece causato una confusione di competenze con intasamento della Corte costituzionale chiamata a dirimere controversie fra regioni.
Ricorda Veneziani, con sottile ironia, che in Italia spesso si fanno le leggi per accontentare qualcuno confidando “sulla cattiva o svogliata applicazione” delle stesse per accontentare gli altri. Quindi la maggioranza deve tener conto realisticamente del fatto di essere tale in una minoranza dei votanti e ancor più degli aventi diritto. Pensino al bene del Paese. E siccome si sente ripetere continuamente che, nonostante tutto, il risparmio degli italiani è notevole dovremmo mobilitare queste risorse per un grande piano di infrastrutture laddove mancano, compresi gli acquedotti perché non è ammissibile che manchi l’acqua d’estate in un Paese che ne è ricchissimo, che manchi nelle case in alcune realtà territoriali di grande interesse turistico, che manchi all’agricoltura che è una risorsa preziosa di ogni regione italiana.
“Quando eravamo i padroni del mondo”, per usare una felice espressione con la quale Aldo Cazzullo ha titolato un suo bellissimo libro, la prima cosa che fecero i nostri progenitori (tali sono per tutti, anche per quelli che successivamente si sono aggregati in Italia) fu di costruire le strade. Ancora oggi l’Italia si avvale dei percorsi delle strade romane, proprio perché erano funzionali ai trasporti delle merci ed ai collegamenti con i vari territori della Repubblica prima e dell’impero poi.
Chiudo tornando sulla mia iniziale riflessione. Se c’è una riforma da fare è quella di abolire le regioni e di dare importanza alle province che delineano un ambiente e corrispondono alla storia e alla cultura delle popolazioni. Le province potrebbero consorziarsi fra loro, come aveva previsto Marco Minghetti all’indomani dell’unità d’Italia. Allora non fu possibile. Si temevano spinte centrifughe. Oggi sarebbe una scelta realistica che farebbe abbassare le penne a quei politici che ostentano con prosopopea la qualifica di “Governatori”.
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