Il referendum della sinistra che può rafforzare la destra
Non ha tutti i torti Calenda: la consultazione contro l’autonomia differenziata richiede un quorum che, con l’astensionismo di oggi, è quasi irraggiungibile. E, se raggiunto, c’è sempre l’elettorato del nord, più numeroso. Qualche ipotesi sul perché Schlein si spenda per una battaglia (quasi) persa.
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E se la Cassandra, che annuncia sciagure, stavolta avesse ragione? Carlo Calenda si è beccato dell’“impolitico” da Elly Schlein perché dubita del referendum sull’autonomia differenziata, lo considera un potenziale boomerang e addirittura si è sottratto alla foto di gruppo con i tanti sostenitori. Impolitico Calenda lo è di sicuro, anzi è l’impoliticità fatta persona, per giunta con un carattere pessimo; però il referendum, forse, non è lo strumento più adatto per bloccare l’autonomia differenziata; presenta rischi che chissà se sono stati valutati a fondo. Il timore del leader di Azione è che non li abbiano presi sul serio oppure si sia voluto lanciare il cuore oltre l’ostacolo senza badare alle conseguenze.
A parte la fatica di raccogliere 500mila firme in piena estate, inseguendo la gente sui sentieri o lungo il bagnasciuga, ci sono dubbi sull’ammissibilità del quesito che propone di cancellare in toto la legge Calderoli. Colpa di un inghippo, da autentici azzeccagarbugli, di cui non è facile accertare la genesi (l’attuale ministro per gli Affari regionali ne attribuisce il “merito” al suo predecessore Francesco Boccia, che oggi è capogruppo Pd in Senato). In sostanza: la legge applicativa dell’autonomia differenziata pare sia direttamente connessa alla manovra di Bilancio e, in quanto tale, non sarebbe suscettibile di referendum. La Corte costituzionale deciderà al riguardo, ma su quello che sarà il giudizio nessuno mette la mano sul fuoco.
Potrebbe accadere infatti, come spesso è accaduto in passato, che la Consulta chiuda la pratica. Per il quesito sarebbe una fine ingloriosa. Ma pure nel caso di via libera della Corte ci sarebbe poi da raggiungere il quorum che, nel caso dei referendum abrogativi, è la metà più uno degli aventi diritto al voto. Cosicché il conto è presto fatto: alle urne dovrebbero recarsi come minimo 25,7 milioni di italiani, altrimenti il referendum non sarebbe valido. E si tratta di una vera impresa considerato che alle Europee, di elettori, se ne sono contati 23 milioni 385 mila. Per scongiurare il flop, la campagna referendaria dovrebbe accendere un sacro fuoco, scatenare rabbie e passioni laddove, per ora, dominano sbadiglio e noia. Certo, di qui a un anno tutto è possibile. La gente a volte regala sorprese, partecipazione di massa compresa. Questo assalto alle cabine elettorali però non sembra al momento probabile; nel caso del referendum, poi, c’è un ulteriore problema.
Chi volesse farlo fallire avrebbe un sistema semplice, collaudato: invitare gli elettori a non scomodarsi. A restarsene in casa. Cosicché la loro assenza si sommerebbe a quella degli astensionisti cronici, che rappresentano la vera maggioranza silenziosa, facendo saltare il quorum. Così sono naufragati, per citare gli ultimi casi, il referendum sulle trivelle nel 2016 e quelli sulla giustizia nel 2022. L’unica maniera di smontare il trucco dell’astensione consiste nel coinvolgere gli avversari sfidandoli a competere, a misurarsi con lealtà sul terreno del voto: il che se avvenisse sarebbe bellissimo, anzi stupendo, un esempio fulgido di democrazia partecipata oltre che di fair play da fare invidia al mondo anglosassone, smentendo quel che si dice sul nostro conto; però è bene non farsi illusioni al riguardo. Lo scetticismo di Calenda sembra più che giustificato. A maggior ragione se il referendum venisse inteso come una prova generale di Fronte Popolare, l’Union Sacrée delle sinistre contro Giorgia Meloni.
Della nostra premier tutto si può dire tranne che coltivi tendenze suicide. Inoltre sa fare politica. Se dai sondaggi Meloni scoprisse che giocarsela le conviene, figurarsi se perderebbe l’occasione di vincere il referendum per consacrarsi ancora di più Ducetta. Ci si tufferebbe per prima, come un pesce. Qualora invece si accorgesse che il voto rappresenta un rischio, che il referendum sull’autonomia differenziata farebbe da catalizzatore dei maldipancia collettivi, e dunque il governo finirebbe a zampe per aria, Giorgia tutto farebbe tranne che lasciarsi infilzare. Per quanto possibile saboterebbe il quorum indirizzando l’attenzione altrove (e i mezzi per distrarre la pubblica opinione non le mancano affatto). Per cui sembra improbabile, salvo sorprese, che il referendum abbia la strada in discesa. Ma allora, perché viene proposto con tanto entusiasmo, Cassandra a parte?
Perché le vere finalità sembrano altre. Mettere in cattiva luce il centrodestra al Sud, per esempio; gettare il seme della discordia tra Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega sulla disunità d’Italia; infilare una zeppa nel baratto tra l’elezione diretta del premier e l’autonomia differenziata, su cui la maggioranza si regge. Inoltre: dare il senso di un’opposizione viva, coraggiosa, perfino spericolata. Il referendum può allargare le basi di una piattaforma comune in vista delle future elezioni politiche, fra 3 anni e 2 mesi. Vero che arrivarci dopo un fiasco referendario non sarebbe il massimo, avverte a ragione Calenda. Ma in questa fase storica più dei fatti concreti vince la narrazione; più dei risultati è decisiva la gestualità, conta dunque l’atteggiamento, la postura con la schiena eretta. Perfino quando non porta da nessuna parte.
Di Ugo Magri per Huffpost
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