Anno: XXV - Numero 235    
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Meloni cede al richiamo della foresta sovranista

Mai si era visto un governo italiano mettersi all’opposizione della Commissione europea, neanche Beppe Grillo l'ha fatto.

Meloni cede al richiamo della foresta sovranista

La premier poteva inaugurare una fase di protagonismo europeo, invece si è allineata alla logica dell’appartenenza. Anche se non è Salvini o Le Pen, da oggi sarà più debole a Bruxelles

Per come l’ha maldestramente impostata sin dall’inizio, ovvero da capo fazione più che da premier di un grande paese fondatore dell’Europa, l’ultimo atto di Giorgia Meloni è la semplice conseguenza dell’incastro in cui si è cacciata. Secondo la logica del capo politico, che vive nell’ossessione dello scavalcamento a destra, era difficile sostenere la partecipazione a una maggioranza europea con i Verdi, per l’impatto simbolico e reale che il tema Green ha sulla sua constituency. Apporto, quello dei Verdi, determinante. Tanto per intenderci: se Ursula avesse scelto Giorgia Meloni rinunciando ad essi, sarebbero andate sotto entrambe e i franchi tiratori sarebbero anche aumentati.

Se però Giorgia Meloni avesse ragionato sin dall’inizio da premier, questo le avrebbe consentito, anche oggi, di non rimanere appesa alla logica degli schieramenti e l’intera discussione avrebbe preso una piega diversa anche in termini di condizionamento di quella parte del Ppe la cui insofferenza verso l’accordo coi Verdi si è manifestata in un numero spropositato di franchi tiratori. E, a volerci mettere un po’ di impegno, anche l’ultimo discorso di Ursula, in fondo, avendo un’esca per tutti, si poteva prestare a giustificare un’apertura. Magari non un voto a favore, ma quantomeno la classica astensione, un po’ cerchiobottista e democristiana, per dare comunque un segnale positivo. L’esca per Giorgia Meloni era il Mediterraneo e le politiche per l’immigrazione. Proprio ieri il Times ha pubblicato un articolo in cui si diceva che il neo premier della Gran Bretagna Keir Starmer, pur avendo cancellato l’accordo col Ruanda, guarda a un rapporto privilegiato con Giorgia Meloni. Insomma, poteva essere il terreno.

E invece: “no”, sia pur questa volta senza la famosa “schiena dritta”. Anche le modalità con cui è stato annunciato il voto contrario, solo dopo l’esito della votazione, dà il senso di una difficoltà. Sostanzialmente Giorgia Meloni alla fine si allinea ai Patrioti di Viktor Orbàn, Marine Le Pen, Matteo Salvini e pure Afd ma rimanendo indecisa fino all’ultimo, persa in un tatticismo esasperato ed esasperante. L’annuncio del voto a babbo morto dà davvero il senso dell’opportunismo: vediamo se i numeri mi danno l’occasione di dire che sono rilevante, in tal caso me la rivendo così, altrimenti sbandiero la “coerenza”, tanto il voto segreto è una notte in cui tutte le vacche sono nere.

Alla fine la morale della storia è che ne esce ammaccata, sia come premier sia come capopartito. Potrà dire, ed è vero, che la maggioranza Ursula ha le sue belle contraddizioni anche se è più ampia di quella della volta scorsa, ma il voto segna uno spartiacque tutto politico, sottolineato proprio dalle parole della neo eletta presidente che ha parlato di una “maggioranza democratica”. Formula che allude a un perimetro fuori del quale ci sono le forze estranee a una certa idea dell’Europa, intesa come valori e tradizioni condivise.

Mai si era visto un governo italiano mettersi all’opposizione della Commissione europea. Non era accaduto nemmeno ai tempi di Beppe Grillo che proprio sul sostegno al precedente mandato a Ursula costruì una strambata anche in Italia. E mai si era visto che un governo di uno dei paesi fondatori dell’Ue precipitasse nel teatro dell’assurdo: un vicepremier, ex presidente del Partito popolare Europeo e ministro degli Esteri in carica che si dice “orgoglioso” di aver votato la nuova Commissione; l’altro vicepremier che abbaia contro “l’inciucio” mentre i suoi colonnelli parlano di “schifo”; la premier che, dopo aver fatto della credibilità internazionale il suo fiore all’occhiello, dopo lungo travaglio cede al richiamo della foresta. Roba che nella tanto vituperata prima Repubblica si sarebbe aperta una crisi di governo, perché, con evidenza, si è incrinato un asset di politica internazionale.

L’Italia non è l’Estonia e comunque avrà un portafoglio magari anche di peso. E tuttavia il tema non sono le poltrone, ma la traiettoria politica che apre questo voto. Al dunque, dopo due anni di discettazioni sul famoso bivio dentro cui si è collocata Giorgia Meloni, ha prevalso la natura profonda e, con essa, l’idea che un’evoluzione possa essere letta dal suo mondo come un “tradimento”. Insomma: lo spettro del “nemico a destra”. Poteva sancire, col voto, l’idea irreversibile di un protagonismo europeo e invece si è lasciata spaventare e, in definitiva, ri-trascinare nel gorgo di quelle forze euroscettiche verso le quali aveva preso le distanze con l’Ucraina. Anche se manterrà una diversa postura – e c’è da scommettere che sarà più collaborativa di Orbàn, Le Pen, Abascal e Salvini – paga comunque il conto, col voto di oggi, di apparire schiacciata su chi non dà affidabilità sui valori fondanti dell’Ue. E amplifica l’impressione di un’ambiguità di fondo perché fai fatica a dirti europeista votando poi con questa compagnia, direbbe il poeta, “malvagia e scempia”.

Non è dato sapere quanto, nel voto, abbiano influito, direttamente o indirettamente, le pallottole in Pennsylvania e se qualche scienziato a palazzo Chigi pensa che possa essere utile all’occorrenza per far dimenticare i baci sulla fronte ricevuti da Biden. E’ lecito constatare che comunque, in uno scenario di radicalizzazione, si presta a non essere percepiti come estranei a quel mondo che si candida ad essere l’interlocutore di Trump. Ha prevalso la logica dell’appartenenza.

Di   Alessandro De Angelis su Huffpost

 

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