Lo ius scholae un “autogol”, scrive Belpietro.
Come non dargli ragione? Vi spiego perché.
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La sveglia l’ha suonata questa mattina Maurizio Belpietro nel suo fondo su La Verità. Lo ius scholae rischia di essere “solo un autogol”. Chiarito che non considera la proposta di Antonio Tajani sullo ius scholae, formulata con riferimento alla posizione favorevole da ultimo assunta da Silvio Berlusconi, in precedenza contrario, una pericolosa virata verso i “compagni” del Partito Democratico che l’hanno accolta con particolare favore, come ha detto Stefano Bonaccini intervistato al Meeting di Rimini, il Direttore Belpietro sottopone al ministro degli Esteri e capo di Forza Italia “una modesta considerazione partendo sempre dall’esperienza di Silvio Berlusconi. Nel 2006 dopo cinque anni di governo, il Cavaliere perse le elezioni. A sconfiggerlo fu Romano Prodi, appoggiato da una coalizione arcobaleno che nel giro di un anno e mezzo andò in pezzi per i conflitti interni. Ma non è di certo sul governo di sinistra che voglio attirare la vostra attenzione bensì sullo scarto che ci fu fra l’armata Brancaleone progressista messa insieme dal professor Mortadella e quella di centrodestra guidata da Berlusconi. La differenza, in termini assoluti, fu di appena 24.000 voti e poco importa che il fondatore di Forza Italia abbia a lungo sospettato che il risultato fosse stato alterato da brogli: la sostanza è che a decretare la vittoria della sinistra fu un numero esiguo di consensi, pari a quelli del quartiere di una grande città. Ora si dà il caso che se lo ius scholae fosse legge, alle urne potrebbe recarsi più di mezzo milione di giovani, un bacino di voti che certo avrebbe ricadute importanti sulla competizione elettorale, decretando la vittoria di uno schieramento piuttosto che di un altro. I compagni sono convinti che se ai giovani stranieri fosse consentito di votare, i primi a beneficiarne sarebbero proprio loro, ed è per questo che da tempo insistono con proposte che agevolano la concessione della cittadinanza agli extracomunitari. Nel 2021 la prima mossa di Enrico Letta, una volta rientrato dal suo esilio parigino per assumere la guida del PD dopo l’ennesima débácle, fu l’idea di una legge per dare il diritto di voto agli extracomunitari, abbassando contemporaneamente l’età per recarsi alle urne a 16 anni. Il senso a me – e non solo a me – apparve abbastanza chiaro: siccome la sinistra non riusciva a vincere la competizione elettorale, convincendo un numero sufficiente di italiani per conquistare la maggioranza, il “nipotissimo” arrivato fresco fresco da Parigi pensò di aumentare i consensi con la “legione straniera”. Più giovani e più extracomunitari, secondo l’allora segretario del Pd, avrebbero compensato la mancanza di elettori autoctoni. Può darsi che mi sbagli, ma ho la sensazione che il calcolo di Letta sia lo stesso di Elly Schlein, che infatti è pronta a sposare qualsiasi idea pur di conquistare alla causa progressista i giovani stranieri. È su questo forse che Tajani dovrebbe fare un supplemento di riflessione: dare il voto ai ragazzi che hanno studiato in Italia aiuterebbe la causa liberale che stava a cuore a Berlusconi? O forse la scelta gioverebbe a chi di liberare non ha nulla, ma insegue i progetti per cui lo stesso Cavaliere decise di scendere in campo? Ecco, per me la questione sta tutta qui: con lo ius scholae si rischia di regalare qualche centinaio di migliaia di voti ai compagni, sì o no? In caso affermativo, meglio lasciar perdere, perché si rischia l’autogol”.
Il ragionamento di Belpietro non fa una grinza, come si dice. È facilmente immaginabile che i voti dei giovani neocittadini immessi nelle liste elettorali andrebbero prevalentemente a sinistra, individuata come principale sostenitrice dell’estensione del diritto di cittadinanza e perché da quella parte non c’è richiamo ai valori identitari, liberali e cristiani che, invece, caratterizzano il Centrodestra.
Infatti, al di là del calcolo, molto verosimile, del direttore de La Verità il dibattito sul tema della cittadinanza è alterato da un vociare approssimativo e velleitario di una politica abituata a parlare per slogan, qualunque sia l’argomento, e, pertanto, proprio sul tema dei diritti di appartenenza ad una comunità. Perché di questo si tratta. Il diritto di cittadinanza, infatti, fa di un soggetto un membro effettivo della comunità nazionale attraverso il diritto di voto, cioè attraverso una decisione che concorre alle scelte di fondo della vita politica e sociale. È un po’ come il diritto di voto nell’assemblea di una società. Quel diritto incide sulla individuazione degli amministratori e sulle scelte della società. Sicché, colui che vota esprime una volontà rispetto alle scelte societarie.
Ugualmente in una comunità costituita in stato il diritto di voto appartiene a coloro che si sentono parti di quella comunità, non solamente per le questioni dell’oggi ma per quelle del domani in una prospettiva che non ignora la storia, cioè l’identità del popolo costituita da valori civili e spirituali aggregati nel tempo.
È per questa ragione che la cittadinanza ovunque viene riconosciuta a chi la chiede se ne appare meritevole. Un esempio la Svizzera. Per ottenere la cittadinanza in quel paese si deve: 1) risiedere in Svizzera per almeno 12 anni; 2) superare un esame di lingua e di conoscenza delle leggi svizzere; 3) non aver commesso alcun reato; 4) dimostrare di avere un lavoro e di essere economicamente autosufficiente. Inoltre, dopo aver ottenuto il passaporto svizzero, il nuovo cittadino è comunque in prova per 5 anni: al primo reato la cittadinanza gli viene revocata!
A questo punto è bene prendere in considerazione le argomentazioni di quanti sostengono che è necessario riconoscere la cittadinanza a coloro che nascono in Italia (ius soli) o che abbiano seguito un corso di studi variamente configurato, nella considerazione che la scuola sia un luogo nel quale s’impara ad essere italiano, se ne conosce la lingua e la storia. Tutti coloro che s’incamminano su questa strada aggiungono che non è giusto non riconoscere a coloro che studiano con “i nostri figli e nipoti” gli stessi diritti di figli e nipoti.
Non è un argomento. Infatti, se la scuola è indubbiamente un mezzo che favorisce l’integrazione altre condizioni contribuiscono a mantenere distanti i giovani che studiano con i nostri figli e nipoti. Sono quelle derivanti dalla famiglia e dalla comunità nella quale vivono. Qualche esempio lo chiarisce. Quando in una scuola italiana fu richiesto un minuto di silenzio per ricordare le vittime del Bataclan le ragazze musulmane non si alzarono in piedi. Ugualmente, ne ho già scritto, ricordo il caso di quel giovane, poco più di un bambino, coraggiosissimo, che in uno scuolabus ha salvato i compagni di scuola presi in ostaggio da un terrorista chiamando, non visto, i Carabinieri ed al quale è stata concessa la cittadinanza italiana. Ebbene, qualche giorno dopo quel bambino si è fatto fotografare con sulle spalle la bandiera egiziana. È egiziano, appartiene ad un popolo di antica civiltà, perché dovremmo impedirgli di essere quel che si sente ed obbligarlo a sentirsi italiano?
Un ricordo personale. In terza media fu inserita nella mia sezione una ragazza che era nata e vissuta fino ad allora (dodici anni) negli Stati Uniti, a New York e grande fu lo stupore di noi colleghi e della docente di lingua che non sapesse una parola d’inglese, neppure good morning. Aveva studiato in una scuola italiana e vissuto in un quartiere dove non era necessario parlare inglese. Oggi c’è chi pretende di attribuire la cittadinanza a chi non conosce la nostra lingua, immaginiamo se conosce la nostra storia e i nostri valori.
Questi esempi chiariscono un aspetto che nella confusione delle idee viene ignorato. È giusto riconoscere a chi vive e studia in Italia i diritti degli italiani quanto all’assistenza sanitaria, alla scuola, alla partecipazione alle attività sportive. Diverso è il diritto di cittadinanza. Che va richiesto. Conosco persone che hanno studiato all’estero, in prestigiose scuole francesi, tedesche o inglesi e non hanno assunto la cittadinanza nonostante la lunga permanenza in quei paesi. Ugualmente conosco professionisti che da anni lavorano all’estero e che non hanno chiesto la cittadinanza di quel paese.
Né può convincere alla concessione della cittadinanza in assenza di una richiesta suffragata da un evidente rispetto della nostra identità quanto ai valori civili che sappiamo non condivisi da comunità che, ad esempio, negano diritti alle donne, i richiami alle esigenze dei fondi pensioni in una realtà che, purtroppo, vede una riduzione delle nascite. Perché è evidente che coloro che lavorano in Italia contribuiscono alle entrate fiscali ed a quelle contributive indipendentemente dalla cittadinanza.
In conclusione, c’è molta confusione di idee per quella scarsa riflessione alla quale il Direttore Belpietro invita tutti e per un certo velleitarismo agostano stimolato dal desiderio di apparire, un sentimento naturale che in politica, e nella vita, a volte è pericoloso.
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