Nella testa di Meloni. Difendere Sangiuliano per difendere sé stessa.
La strana e indefessa protezione del ministro c’entra solo in parte con lo spirito di tribù.
Più probabilmente per evitare la prima crepa nel governo. Ma (visti i problemi di Scholz, Macron, Sanchez) è davvero assurdo il modo in cui si ingigantiscono piccole grane
Non è malizioso pensare che, se fosse ancora all’opposizione, Giorgia Meloni – l’elenco dei precedenti è lungo – avrebbe chiesto le dimissioni di Gennaro Sangiuliano, caso esemplare, attingendo al gergo della casa, di “amichettismo”: il ministro dell’egemonia culturale, dedito a piazzare in giro i suoi “amichetti”, folgorato da Cupido coinvolge nelle sue attività istituzionali anche “l’amichetta”, senza neanche regolare contratto, ed essendo amico della premier non paga dazio. Fin qui è una classica storia di doppio standard: ciò che vale per gli altri non vale per me.
Tuttavia, l’elemento, diciamo così, misterioso è quale sia, a questo punto, lo standard della casa, l’asticella cioè sotto la quale un comportamento diventa inaccettabile e il perché di cotanta tolleranza. Quesito amplificato dai nuovi (non banali) dettagli della soap pompeiana. Lui, per la prima volta, in attesa di sfilare al prossimo Family Day, ammette alla Stampa e poi al Tg1 il suo rapporto sentimentale con Maria Rosaria Boccia, paragonandosi a Matteo Salvini con Francesca Verdini, che peraltro è la compagna ufficiale e non ha consulenze vere o mancate. Lei, l’influencer di Pompei, pubblicando una mail rivela che la segreteria ufficiale del ministero si è formalmente occupata delle sue carte d’imbarco, pur non ricoprendo lei un ruolo ministeriale, fatto inusuale al di là del tema del pagamento del medesimo viaggio.
Insomma, la ricostruzione è chiara, incrociando le parole e gli audio dei protagonisti: Sangiuliano voleva darle un incarico, poi si è innamorato e, anteponendo le ragioni del cuore a quelle contrattuali, ha ravvisato l’inopportunità di procedere pur non ravvisando quella di non coinvolgerla nelle sue attività. Mentre lei, evidentemente anteponendo il contratto al sentimento, ha piantato il casino. Che non è affatto finito, a giudicare dai minacciosi pizzini recapitati via Instagram dall’influencer ferita, dai quali si apprende che continuano a sentirsi e che lei è seccata dalle dichiarazioni di Sangiuliano. La morale è di un ministro sotto scacco (e sotto ricatto) che ha perso il controllo della situazione, la cui evoluzione è appesa ai social di lei.
Torniamo al punto: a meno che Giorgia Meloni non si sia così intenerita dall’affare di un cuore che batte e di un senno smarrito, al punto da far prevalere la pietà sull’assenza di giustificazioni, resta immutato il quesito sul perché tanta tolleranza su una storia diventata una barzelletta. Lo spirito di tribù è certo un elemento forte della sua cultura politica. Quello per cui al dunque, quando una vicenda tocca uno dei suoi, prevale sempre l’istinto difensivo, che ha radici antiche e da cui non si è mai liberata: l’educazione politico-sentimentale in un gruppo chiuso, fatto di giovani cementati dal cameratismo, da un’idea di comunità e di solidarietà al suo interno, nutrita dell’idea del “noi pochi contro il mondo”.
Quell’elemento crea un enorme condizionamento psicologico, da cui non riesce a liberarsi, anche perché non riesce a convincersi di salire a nuova cultura politica, con cui sostituire quella della formazione. Però Gennaro Sangiuliano, come storia, peso politico, vicinanza, non è parte di quel nucleo d’acciaio che comunque esercita, per vissuto comune, un potere di condizionamento su Palazzo Chigi. È il caso di Andrea Delmastro e di Ignazio La Russa, la cui forza, in quel mondo, è cruciale per comprendere la resistenza su Daniela Santanchè.
La sensazione è che la logica tecnicamente tribale non basti a spiegare il caso. L’elemento prevalente è quella percezione di precarietà che sembra albergare, da qualche settimana, a Palazzo Chigi: l’evocazione del complotto estivo (peraltro inesistente) su Arianna Meloni, la paranoia sui mandanti, l’ansioso vertice di fine agosto, in stile da pentapartito in affanno. L’idea prevalente, anch’essa figlia della cultura minoritaria, è di un assedio e che basta un niente per minare l’edificio. Dunque: resistere, sempre e comunque. In quest’ottica le dimissioni di Sangiuliano non vengono lette dalla premier come una criticità da sminare in due ore, con la nomina di un nuovo ministro, che peraltro spetta come quota al suo partito, conferendo al gesto il valore di esempio. Ma, rimuovendo del tutto il merito e le differenze dei singoli casi, come una debolezza che la espone all’effetto domino sul resto: il primo piccolo indiano, che rende poi più difficile reggere sugli altri, a partire da Daniela Santanchè.
Si potrebbe discettare a lungo su quanto, guardando i fondamentali, questa percezione di precarietà cozzi col quadro complessivo di un governo che, solo due mesi fa, ha stravinto le elezioni ed è più forte di molti governi europei: Olaf Scholz ha i nazisti in Sassonia e Turingia, Emmanuel Macron non ha il governo, Pedro Sanchez ha l’invasione dei migranti dalle Canarie. Mica l’influencer di Pompei. La premier italiana ha molti meno problemi. Ma, invece di risolverli e liberarsi della zavorra, si lascia assediare dal loro cumulo. E la logica resta oggettivamente misteriosa.
di Alessandro De Angelis su Huffpost
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