La storia della Seconda repubblica annuncia il fallimento di Schlein
La segretaria dovrebbe studiare bene le elezioni e le alleanze degli ultimi trent’anni e capirebbe che la sua strategia per Palazzo Chigi è disperata. Gli esempi di Prodi, D’Alema, Letta, Bersani, Renzi e così via. Sembrerà strano, ma bisogna ripartire dall’idea di Veltroni.
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Sarebbe un problema se, come sembra, nel tentativo di formare una coalizione per sfidare e battere Giorgia Meloni alle prossime elezioni politiche, Elly Schlein ampliasse la tendenza a dichiarare estranea a sé la storia del Pd prima che ne diventasse segretaria. Sin dal primo giorno di leadership, ha infatti rivendicato una storia nuova, come se i capi e le scelte di prima fossero stati solo errori ai quali porre rimedio. Dichiarare tre quarti della dirigenza figlia della compromissione, e reclamare per sé una verginità, soprattutto in un partito già così difficilmente domabile, temo sia un’idea non brillantissima e prima o poi ne vedremo l’esito.
Ma cancellare o ignorare o trascurare gli accadimenti della Seconda repubblica in fatto di alleanze per la conquista del governo, avvierebbe Schlein sulla strada della disfatta. Perché significherebbe cancellare o ignorare o trascurare non soltanto le effettive potenzialità del Pd e della sinistra italiana, ma anche la costituzione (con la minuscola) del paese, e progettare la vittoria in un mondo inesistente.
Dunque: la sinistra ha vinto le elezioni soltanto due volte, entrambe con Romano Prodi, nel 1996 e nel 2006. Prodi era un federatore, non apparteneva né al Pds (1996) né ai Ds (2006). Nel primo caso, la spuntò perché il centrodestra era monco per la diserzione della Lega di Umberto Bossi, eppure il governo durò due anni e mezzo, poi fu defenestrato a favore di una nuova maggioranza e un nuovo premier: Massimo D’Alema. Nel secondo, il governo durò anche meno, due anni, perché era sorretto da una maggioranza senza senso, formata da sedici partiti e col vitale appoggio esterno di altri sette o otto, e per reggere quell’esercito di antiberlusconiani toccò trovare centodue (record mondiale) posti fra ministri, viceministri e sottosegretari. Ed era un governo, per di più, delegittimato politicamente dalla nascita del Pd di Walter Veltroni con la vocazione maggioritaria, ossia il rigetto delle ammucchiate. Caduto Prodi, nel 2008, Veltroni avrebbe perso contro Silvio Berlusconi ma condotto il Pd al 33 per cento (Camera dei deputati) con l’enormità di 12 milioni di voti.
Se Veltroni non fosse stato fatto fuori con le solite congiure intestine, forse nel 2011, tracollato Berlusconi per vicende d’alcova e di bilancio, non sarebbe stato necessario il ricorso al governo tecnico di Mario Monti, o forse alle elezioni successive, del 2013, sarebbe andata diversamente. Il 2013 fu l’anno di Pier Luigi Bersani candidato premier e della “non vittoria”, oltre che dell’irruzione scapestrata dei grillini in Parlamento. Lo stallo al tempo degli streaming fu risolto da Giorgio Napolitano con l’incarico a Enrico Letta, e nacque il governo con Pd e Forza Italia insieme, poi indebolito dall’uscita di Berlusconi in seguito alla condanna, e giustiziato dalla strategia di palazzo di Matteo Renzi. Nel 2018 – siamo ormai ai giorni nostri – il caos produsse la maggioranza carnevalesca gialloverde (Conte I), che un anno dopo si ritinteggiò in giallorossa (Conte II), col ritorno del Pd al governo e in cui sarebbe rimasto con Mario Draghi. La sconfitta del 2022 per mano di Meloni è la quinta, dopo quelle subite da Berlusconi nel 1994, nel 2001 e nel già ricordato 2008, oltre a quella del 2018.
Sopportate un’ultima ricapitolazione. Il Pd (e antenati) non ha mai portato un suo candidato alla vittoria. Ne ha portati tre a Palazzo Chigi (D’Alema, Letta, Renzi) ma soltanto per macchinazioni parlamentari. Quando ha vinto col papa straniero (Prodi) c’è riuscito a costo di alleanze così eterogenee e sconclusionate da reggere al massimo metà legislatura. Infine, è stato al governo con due premier tecnici (Monti e Draghi), con un premier mezzo tecnico e mezzo politico alla fine del Berlusconi I (Dini, 1995) oppure con alleati innaturali (Forza Italia, Cinque stelle).
Ecco, nonostante i precedenti, nonostante l’andamento chiaro degli ultimi trent’anni, Elly Schlein intenderebbe candidarsi alla presidenza del Consiglio, essere la prima del Pd ad andarci via elezioni, e supportata da un’alleanza forse insufficiente, sicuramente già litigiosa nelle fase dei presupposti, sicuramente vaga o scollata su questioni fondanti come la guerra in Ucraina, quella in Medio Oriente, l’idea del mondo occidentale in cui si conta di vivere. Molti auguri.
Ps. L’unico vero grande progetto della sinistra dopo la fine della Prima repubblica fu il Pd maggioritario di Walter Veltroni. Ma era un progetto che necessitava del tempo che la politica contemporanea non prevede. E quella di oggi, frenetica di hashtag, non prende neanche in considerazione. Peccato, perché cinque anni di opposizione sarebbero stati di buona semina.
di Mattia Feltri su Huffpost
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