L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e il vaglio costituzionale
L’abuso d’ufficio, presunto spauracchio dei Sindaci, è stato abrogato dal Parlamento il 10 gennaio 2024.
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Diversi Tribunali italiani, tra gli ultimi mi pare quello di Bolzano, hanno sollevato la questione della legittimità avanti la Corte costituzionale.
Mi pare opportuno fare il punto della situazione.
“Per costante giurisprudenza costituzionale, dal principio della riserva di legge in materia penale, che rimette al legislatore la definizione dell’area del penalmente rilevante, consegue l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale di disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirano al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata. Tuttavia, la stessa giurisprudenza costituzionale ha ammesso alcune eccezioni a tale principio, che rendono possibile il sindacato di legittimità costituzionale in materia penale, con effetto anche in malam partem: si tratta dei casi in cui norme penali di favore sottraggono, irragionevolmente, un determinato sottoinsieme di condotte alla generale rilevanza penale della classe più ampia, oppure venga censurato lo scorretto esercizio del potere legislativo (per violazione di vincoli procedimentali o, in caso di leggi regionali, del riparto di competenze) o l’effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria consegua in modo indiretto dalla operata reductio ad legitimatem di una norma processuale, o, infine, quando venga in rilievo la contrarietà della disposizione censurata agli obblighi sovranazionali. (Precedenti citati: sentenze n. 236 del 2018, n. 143 del 2018, n. 46 del 2014, n. 32 del 2014, n. 5 del 2014, n. 28 del 2010, n. 394 del 2006, n. 161 del 2004, n. 49 del 2002, n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009, n. 5 del 2009, n. 413 del 2008, n. 164 del 2007, n. 65 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997)”. (Fonte: sentenza 37/2019, Corte Costituzionale).
La Corte Costituzionale con la sentenza 37/2019 ha fissato i paletti per il vaglio costituzionale di fattispecie abrogative, come quella in esame, nel senso che:
“7.1.– In linea di principio, sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata (così, ex plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante. Principio, quest’ultimo, che determina in via generale l’inammissibilità di questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l’ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore (ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad aggravare le conseguenze sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato (ex multis, ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009 e n. 5 del 2009). Come ribadito anche di recente da questa Corte (sentenze n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), peraltro, tali principi non sono senza eccezioni. Anzitutto, può venire in considerazione la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006). Un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem deve altresì ritenersi ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata. Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale è stato, altresì, ritenuto ammissibile allorché esso si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018). Un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può, infine, risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonché sentenza n. 32 del 2014, ove l’effetto di ripristino della vigenza delle disposizioni penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento alla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.»)”.
Nel caso di specie ci si dovrà confrontare con la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 03.05.2023 che, se approvata, costringerà comunque l’Italia a tornare sui propri passi ed introdurre di nuovo l’abuso d’ufficio da poco cancellato.
Questo perché la proposta di delibera da atto che l’abuso d’ufficio è contemplato dal diritto nazionale in tutti i 25 Stati e che la proposta prevede all’art. 11 che “gli Stati membri prendano le misure necessarie affinché sia punibile come reato la condotta seguente, se intenzionale:
- L’esecuzione o l’omissione di un atto in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo;
- L’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione di un dovere, da parte di una persona che svolge a qualsiasi titolo funzioni direttive o lavorative per un’entità del settore privato nell’ambito di attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o commerciali al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”.
A me il vaglio costituzionale sembra dunque possibile sia perché l’abrogazione dell’abuso d’ufficio ha creato delle “zone franche” sia per la proposta di direttiva in cammino per diventare operativa.
“La corruzione – afferma il Presidente Busìa – apporta un danno ingentissimo all’economia dell’Europa e dei singoli Stati membri. Combatterla adeguatamente vale più di una manovra economica. Inoltre, mina la coesione sociale e la fiducia verso le istituzioni. Conviene, quindi, all’Italia e all’Europa l’adozione della direttiva, uno strumento che rafforza la prevenzione, ampliando l’ambito di azione rispetto al singolo Stato ed estendendolo a tutta Europa. La corruzione, infatti, non ha confini nazionali”.(Roma 14 ottobre 2024).
Vedremo cosa deciderà la Corte costituzionale.
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