Anno: XXV - Numero 214    
Giovedì 21 Novembre 2024 ore 13:20
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Trump come Reagan

Gli oppositori del primo usano gli stessi argomenti che furono usati allora dagli oppositori del secondo.

Trump come Reagan

Per prendere le contromisure, bisognerebbe prima superare i paradigmi delle frasi fatte.

È probabile che Donald Trump, soprattutto il secondo Trump, non sia l’equivalente di Ronald Reagan. C’è una grande distanza tra i due e non solo per i 44 anni trascorsi tra le due elezioni. Il partito repubblicano è cambiato, tant’è che la vecchia guardia è stata scalzata. Il Trump di oggi, e con lui il partner Elon Musk, fa sapere di voler essere un rivoluzionario, l’interprete di un mondo de-globalizzato in cui tutti gli antichi equilibri saranno scardinati. Sono cose che si dicono in campagna elettorale, certo: vedremo come andrà nella pratica. Anche Reagan annunciò “un nuovo inizio”, il ripristino della forza e dell’immagine americana nel mondo. Salvo i toni e le grossolanità, era un messaggio riecheggiato ai nostri giorni dallo slogan trumpiano: “facciamo di nuovo grande l’America”.

E allora, in definitiva, cosa non è cambiato? Entrambi, Reagan e Trump, sono stati attaccati da sinistra, dalla sinistra italiana quanto meno, con gli stessi, identici argomenti polemici: para-fascisti, reazionari, minaccia per la democrazia, pericolo per il mondo. Non solo: entrambi erano dati per sicuri sconfitti fino a un attimo prima che fossero diffusi i dati dei vari Stati; la vittoria dell’uno e dell’altro ha provocato a distanza di quasi nove lustri il medesimo moto d’incredulità tra gli osservatori stranieri, in particolare di casa nostra. E come andarono poi le cose? Del secondo Trump ovviamente non possiamo sapere, ma il primo mandato si consumò senza gli sfracelli annunciati e persino con qualche buon accordo internazionale, come il patto di Abramo. E Reagan, ormai consegnato al bilancio storico, fu un presidente conservatore ricordato per aver accresciuto, sì, il debito federale (essendo peraltro in buona compagnia) ma soprattutto per aver provocato il dissesto dell’Unione Sovietica e creato una rete di rapporti internazionali in cui c’era posto per una buona relazione tra l’Europa e gli Stati Uniti.

Di nuovo si obietta: ma i due sono diversi. Senza dubbio e qui nessuno vuole attenuare le incognite che il trumpismo porta con sé e le preoccupazioni suscitate. È abbastanza inquietante che il nazionalista russo Aleksandr Dugin, che si pretende l’ideologo di Vladimir Putin, abbia salutato il neoeletto come colui che metterà fine all’economia globale (o globalizzata) e seppellirà i presupposti della democrazia liberale. Sono gli stessi argomenti, per il momento resi meno espliciti, coltivati dall’uomo del Cremlino. Eppure il punto non è questo. È invece la mancanza di fantasia della maggioranza dei critici, la ripetizione sempre più stanca di un frasario schematico che in definitiva spiega poco o nulla. Reagan fu attaccato perché non assomigliava a Dwight Eisenhower, visto in quel momento come il modello del presidente repubblicano conservatore eppure rassicurante. E adesso Trump è criticato perché si discosta dal modello Reagan. Senza, tuttavia, che ci sia mai stata una rivalutazione di quella presidenza. Qualcosa non torna.

Se si tratta di rispondere in termini politici generali ai proclami di Trump, allora ha fatto più Mario Draghi – sul tema della competitività tra l’economia della vecchia Europa e quella della ribollente America – di quanto siano riusciti a esprimere tanti altri esponenti della sinistra italiana o europea. Dire, come pure è stato detto, “non c’è più tempo da perdere, l’Europa deve reagire” significa rifugiarsi nella consueta retorica. Lamentarsi che non esista un anti-Trump in questa sponda dell’Atlantico, rischia di essere un altro gioco di parole. Al momento non ci siamo ancora spiegati il successo di Trump: forse conviene prima superare i paradigmi costruiti sulle frasi fatte. Nel dopoguerra abbiamo avuto statisti che hanno saputo ergersi, in un modo o nell’altro, come interlocutori degli Stati Uniti. De Gaulle, in chiave di rivendicazione di un’identità storica; Helmut Schmidt e poi Helmut Kohl come partner euro-atlantici capaci di ottenere il rispetto dell’alleato. Ma il primo parlava a nome della Francia; i secondi a nome della Germania. L’Europa era un’idea che s’intravedeva dietro le nazioni. E oggi la situazione non è tanto mutata.

Di Stefano Folli su Huffpost

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