«Ma quale bavaglio! Il governo ha lasciato libertà di gogna...»
Parla Oliviero Mazza, avvocato e ordinario di diritto processuale penale alla Bicocca: «Senza sanzioni il decreto che vieta la pubblicazione testuale degli atti del gip è inutile».
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Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera definitivo allo “Schema di decreto legislativo riguardante la presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Detto altrimenti dai detrattori, la famosa “legge bavaglio”. Ne parliamo con l’avvocato Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano- Bicocca.
Il divieto di pubblicazione è stato esteso dalle ordinanze di custodia cautelare a tutte le misure cautelari personali. Cosa ne pensa?
Credo sia la correzione logica e naturale della proposta iniziale. Quello che conta, infatti, non è la tipologia della singola misura adottata, ma la motivazione che la sostiene in ordine alla gravità indiziaria e alle esigenze cautelari.
Sarebbe stato d’accordo ad estendere il divieto anche alle misure cautelari reali, come il sequestro?
Anche per le misure reali, il problema sta nella motivazione che si presta a una distorta rappresentazione mediatica. Avevo già avuto modo di dire che il divieto dovrebbe riguardare ogni tipologia di misura cautelare, proprio perché quello che conta non è la misura in sé, ma quanto scritto dal giudice per giustificarla.
Non sono state però previste sanzioni. Ha senso prevedere un divieto ma nessun deterrente per chi non lo rispetta?
Era difficile prevedere sanzioni di natura processuale, dato che la pubblicazione è un atto extraprocessuale, mentre le sanzioni penali o disciplinari restano invariate. Aver vietato la pubblicazione dell’ordinanza cautelare personale significa integrare il precetto penale con questa nuova regola, con la conseguenza che d’ora in poi la pubblicazione sarà da considerarsi arbitraria in forza del combinato disposto degli art. 114, 329 c.p.p. e 684 c.p..
Il presidente Anm, Giuseppe Santalucia, ha dichiarato: “Penso che si ponga un problema di eccesso di delega perché nel testo di legge di delegazione si parlava di custodia cautelare”, mentre il divieto di pubblicazione integrale viene ora “esteso a tutte le ordinanze cautelari. Capisco il senso dell’estensione nella prospettiva, errata, in cui si è mosso il legislatore delegato, ma la delega parlava di custodia cautelare, quindi, potrebbe sorgere un problema di eccesso di delega”. Che ne pensa?
Mi sembra un argomento di carattere formale che contravviene all’interpretazione sistematica costantemente utilizzata dalla giurisprudenza. Il presidente Santalucia sa perfettamente che le regole ermeneutiche si applicano anche alle leggi di delega, ma credo voglia trovare possibili soluzioni per cancellare una riforma evidentemente sgradita. La magistratura dovrebbe però guardare con favore ad ogni limitazione delle distorsioni mediatiche che, alla lunga, incidono anche sulla indipendenza esterna di chi è chiamato a giudicare.
Un eventuale rafforzamento delle sanzioni pecuniarie a presidio del divieto avrebbe rischiato l’incostituzionalità per eccesso di delega?
Penso di no, la direttiva europea voleva norme che rendessero effettiva la tutela della presunzione d’innocenza. Le sanzioni, anche penali, per la pubblicazione arbitraria vanno proprio in questa direzione. Purtroppo, il legislatore non ha avuto il coraggio di innovare, prevedendo una responsabilità amministrativa ex d.lgs. 231/2001 in capo all’editore che si affiancasse al reato di pubblicazione arbitraria o di rivelazione del segreto d’ufficio. Sarebbe stata una novità importante in grado di imporre modelli organizzativi virtuosi all’impresa giornalistica.
Secondo lei il governo ha dunque scelto di non inasprire le sanzioni per calcolo politico? Già ha l’Anm contro per la separazione carriere, ora avrebbe avuto anche una grande fetta di stampa contro, soprattutto in vista del referendum sulla riforma costituzionale.
Ne sono convinto, è stata una scelta volta a non inasprire ulteriormente il confronto politico sulla giustizia, ma lascia scoperto il versante fondamentale della cogenza dei divieti che si raggiunge solo mediante la deterrenza di sanzioni proporzionate rispetto alle violazioni.
Ora il lettore si affiderà alla sensibilità del giornalista che potrà fare il riassunto dei provvedimenti ma non pubblicarli. Secondo lei davvero verrà tutelata la dignità dell’indagato? In fondo se il giornalista ha uno sguardo colpevolista lo manterrà ugualmente.
Temo che questa riforma, come tante altre, rimarrà una norma manifesto, una mera indicazione di metodo rivolta ai giornalisti che, nel volgere di qualche mese, verrà totalmente disattesa. Del resto, il discrimine fra pubblicazione dell’atto e del suo contenuto è molto sottile e si presta a facili aggiramenti. Quando il giornalista avrà a disposizione l’ordinanza, ossia sempre, troverà il modo di trasmettere al pubblico l’idea della colpevolezza dell’imputato. Il divieto di pubblicazione testuale, se fosse rispettato, potrebbe quantomeno arginare le manifestazioni più indecorose della deriva giustizialista. Per risolvere il problema ci vorrebbero scelte ben più radicali, riforme improntate al principio di responsabilità, a partire dai magistrati.
Due giorni fa in Aula il deputato di Forza Italia Enrico Costa ha parlato di “tanatosi” del gip rispetto alle richieste del pm. Secondo lei la combinazione di questa norma definita “bavaglio” e la separazione delle carriere a cosa porterà nel tempo?
Rifiuto la definizione di norma bavaglio, in quanto non corrisponde alla realtà. Come detto, si tratta di ben poca cosa, una norma pressoché ottativa. Quanto al ruolo del gip, non dimentichiamoci che è stato ulteriormente distorto sulle funzioni d’accusa proprio dalla riforma Cartabia, come dimostra la possibilità di intervento diretto nella costruzione dell’accusa. Le riforme, compresa la separazione delle carriere, devono accompagnarsi a un mutamento culturale, devono essere i giudici per primi a rifiutare ogni commistione con il pubblico ministero, rivendicando un ruolo terzo rispetto a quello delle parti. Ma ci vorranno anni per introiettare una nuova cultura del processo adversary, per avere un giudice garante dei diritti fondamentali di fronte alla pretesa punitiva dello Stato. Oggi dobbiamo porre le basi per questo futuro.
Di Valentina Stella su Il Dubbio
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