L’azzardo
Giorgia Meloni ha scelto la strada dell’“affondo”, come scrivono i giornali, nei confronti dei magistrati: “i giudici si candidino se vogliono governare” ha titolato il Corriere della Sera.
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“Dovuto” o “voluto” che sia, l’atto con il quale la Presidente del Consiglio è stata informata che la Procura della Repubblica di Roma aveva trasmesso la denuncia dell’avvocato Luigi Li Gotti al Tribunale dei ministri poteva provocare due reazioni per certi versi opposte: un chiarimento sui fatti, con la spiegazione delle ragioni delle azioni e delle omissioni, ed una denuncia clamorosa, perché proveniente da chi è responsabile del Governo, dell’intento politico di quell’atto del Procuratore Francesco Lo Voi.
Naturalmente Giorgia Meloni, come avrebbe fatto probabilmente Silvio Berlusconi, quando sfuggiva alla saggia “vigilanza” del cauto e istituzionale Gianni Letta, ha scelto la seconda strada sostenendo che i giudici fanno politica perché l’effetto della comunicazione è stata enfatizzata anche all’estero, con inevitabile danno all’immagine dell’Italia. È presumibile che questa enfatizzazione non ci sarebbe stata se la Presidenza del Consiglio, nel rispetto per il ruolo della magistratura, avesse spiegato le ragioni della sua azione e l’interesse dello Stato italiano. Naturalmente la Premier avrebbe anche potuto apporre il segreto di Stato.
Giorgia Meloni ha scelto la strada dell’“affondo”, come scrivono i giornali, nei confronti dei magistrati: “i giudici si candidino se vogliono governare” ha titolato il Corriere della Sera.
In un ordinamento liberale, nel quale vige il sistema della separazione dei poteri, è sempre possibile che si verifichino contrasti con la magistratura ogni volta che sia da questa censurato un atto ritenuto non conforme a legge. È possibile ed è codificato dalle leggi che prevedono che, in alcuni casi, si possa adire la Corte costituzionale per chiedere che sia accertato il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
Tuttavia, questa possibilità non stimola il politico propenso ad addivenire allo scontro per affermare che i giudici, in realtà, fanno politica, che sono toghe “rosse” o “nere” a seconda dell’interesse della politica, che ha il senso dell’effimero e non si preoccupa se, di lì a poco, emerge che quel magistrato in realtà è un onesto servitore dello Stato.
Un tempo i politici non attaccavano la magistratura, anche perché chiunque fa politica sa di aver commesso qualche peccatuccio, di aver favorito assunzioni, di aver finanziato o fatto finanziare l’ente amico. Poi con la discesa in campo del “Presidente imprenditore” le cose sono cambiate fino all’insulto dell’intera categoria e dei singoli magistrati.
Attenzione, non che la magistratura non abbia le sue pecche, come quando ha pubblicamente disatteso le regole dell’interpretazione della legge, un atteggiamento palesemente sovversivo delle regole o quando i singoli magistrati sono stati visti partecipare a riunioni di partito o a convegni tematici dominati dai partiti. Così contravvenendo al principio della loro indipendenza e dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Tutte situazioni spiegate da Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano, oggi Ministro dell’istruzione del merito, in un bel libro edito da Pagine, “Giudici e legge”, che segnala l’alterazione delle regole dell’interpretazione stabilite dalle disposizioni sulla legge in generale ed altre iniziative di alcune correnti dell’Associazione Nazionale Magistrati che sanno di politica più che di riflessioni sulle regole del diritto.
Queste gravi deviazioni dal percorso ordinario dell’applicazione della legge meritano un intervento del legislatore o altri rimedi istituzionali ma non possono essere poste alla base di interventi politici del governo né tantomeno giustificare offese personali ai singoli magistrati considerato che appartengono ad una minoranza dei circa diecimila togati delle varie giurisdizioni impegnati in un lavoro difficile con disciplina e onore.
La strada intrapresa dalla Meloni berlusconeggiante non è senza rischi. È un azzardo sul piano del consenso perché, se è vero che la magistratura ha perduto il prestigio di cui godeva anni addietro, anche la politica non è messa meglio come dimostra l’abbandono delle urne elettorali. E se indubitabilmente vedrà accrescere nel breve tempo i consensi, il rischio è che questa fiammata, come altre che dovesse provocare con le sue iniziative, potrebbe, sui tempi più lunghi, rivelarsi effimera.
Abbiamo rievocato Berlusconi. L’esperienza del governo Berlusconi-Fini dovrebbe insegnarle che non è certo che possa godere a lungo degli effetti della confusione che regna a sinistra perché, come nel 2006, se il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle ed i vari cespugli e cespuglietti trovassero il Prodi del 2027, un moderato autorevole, che sappia parlare alla Nazione con il linguaggio della moderazione e della fermezza, potrebbe non bastare la denuncia dei complotti, interni ed internazionali, dei quali si parla solamente in alcuni dei salotti televisivi tanto cari al Centrodestra. E allora, persi molti dei voti di quanti auspicavano nel 2002 una sterzata a destra, i delusi, insieme agli astenuti, che comunque non voteranno a sinistra, la somma algebrica delle varie componenti potrebbe rivelare un risultato come quello del 2006, quando la destra perse per venticinque mila voti, quando avrebbe potuto vincere per due milioni.
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