Anno: XXV - Numero 53    
Lunedì 17 Marzo 2025 ore 18:00
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“Il Pd è arrivato impreparato all’appuntamento con la Storia”

Intervista ad Arturo Parisi fra i padri dell’Ulivo.

“Il Pd è arrivato impreparato all’appuntamento con la Storia”

I più si raccontano che la guerra è uscita dai nostri orizzonti e resta negli interessi di pochi. Il partito è paralizzato, danneggia il paese, blocca la democrazia. Se non si capiscono le ragioni per resistere, tanto vale arrendersi.

Professor Arturo Parisi, ci risiamo. Il Pd si è spaccato come una mela tra favorevoli e contrari al piano Rearm Europe, con i secondi convenuti in extremis sull’astensione. È finita 10 a 11, con Elly Schlein che ha rischiato di finire in minoranza ma rivendica la sua linea. È un partito che decide di non decidere?

Ci risiamo, dice lei. A me verrebbe da dire invece che purtroppo siamo sempre lì, dove iniziammo 17 anni fa: al “ma anche”. Una istanza in sé giusta perché niente è in politica, e non solo in politica, totalmente bianco o totalmente nero. Giusta ancor di più in una politica pensata come costruzione di un consenso maggioritario attorno alla decisione di governo, e non alla semplice rappresentanza e agitazione delle istanze di parte. Ma in un partito, come il Pd di oggi, segnato sempre più dalla ricerca di una propria identità esclusiva quello che fu chiamato il “ma-anchismo” non può che produrre il deprecato pasticcio “di allodola e cavallo”. O, in alternativa al “sia-sia”, finire nel “né-né” dell’astensione.

Eppure nel centrosinistra ci sono sempre state due linee – una pacifista, una chiamiamola più realista – e lo si è visto sull’Iraq e sull’Afghanistan. Ma erano segretario e gruppi dirigenti a fare la sintesi. Adesso si naviga a vista?

E infatti proprio nei casi citati, pur in una coalizione diciamo pure variegata come quella del secondo governo Prodi, facemmo sintesi. Lo dico ricordando la fatica da ministro della Difesa. In pochi mesi rientrammo dall’Iraq, ridefinimmo la nostra partecipazione alla missione in Afghanistan, e contribuimmo in modo determinante al varo e alla guida di Unifil2 sollecitata congiuntamente da Libano e Israele per metter fine alla guerra tra i due paesi a noi vicini. Sulla base del mandato che avevamo chiesto esplicitamente agli elettori, e in coerenza con una linea che ci vedeva impegnati all’interno della Nato e dell’Ue ma sempre con una legittimazione dell’Onu. Ed è vero che il governo cadde ma non su questioni internazionali. Quelle appunto nelle quali “a vista” non si può navigare.

C’è secondo lei un tema generazionale? Politici che non hanno – fortunatamente – mai vissuto direttamente né indirettamente guerre faticano a mettersi in relazione con quel contesto?

Nonostante le cronache non abbiano mai smesso di darci conto di guerre lontane, vicine, e talvolta vicinissime, la maggioranza racconta a sé stessa che la guerra è uscita dall’orizzonte della Storia e sopravvive solo grazie agli interessati: generali, fabbricanti, o mercanti di armi che siano. Abituati all’ombrello subìto e cercato di una Nato a stelle e strisce troppi non hanno ancora veramente capito di cosa stiamo parlando.

Non le sembra che – come per la proposta di Dario Franceschini sulla desistenza nei collegi elettorali in assenza di un’alleanza solida con M5S – nel Pd la tattica e la ricerca di una exit strategy prevalgano sulla strategia?

Quella di Franceschini la definirei una tattica eretta programmaticamente a strategia. Una troppo realistica resa al fatto che sulle cose che contano anche solo provare a ritrovarsi su un progetto che tenga nel tempo è fatica sprecata. Tanto vale abbandonare ogni idea di progetto e rinviare al cabotaggio parlamentare, dove appunto navigare a vista è la regola. Ma, ripeto, ci sono cose nelle quali questo non è possibile. Lo vediamo appunto in questi giorni drammatici con Giuseppe Conte che grida a Strasburgo “basta soldi per le armi” e Schlein che a Roma è costretta a balbettare il suo né-né per tenere insieme almeno la sua maggioranza interna.

Se non si esce da questo vuoto decisionale il rischio è che l’ambiguità continui a riproporsi paralizzando l’azione del secondo partito italiano e capofila dell’opposizione?

Purtroppo. Paralizzando l’azione del principale partito di opposizione, danneggiando il Paese, e bloccando la nostra democrazia. Escludendo contemporaneamente ogni possibilità che l’Italia possa condividere oltre i confini di parte almeno quella direzione di marcia della quale un Paese della nostra statura ha bisogno per essere considerato un interlocutore affidabile, ma allo stesso tempo privandoci della prospettiva di una alternativa di governo alla maggioranza attuale. Considerati il suo rilievo politico e la sua forza elettorale, anche solo l’apparenza dell’ambiguità di un partito come il Pd provoca guasti.

Schlein ha vinto nei gazebo spinta anche dal mondo della sinistra pacifista, e non c’è dubbio che la sua sensibilità penda da quella parte. Ma il “popolo del Pd” sta con questa importazione o con quella di Letta, Veltroni, Gentiloni, Prodi?

Che Schlein abbia vinto è fuori dubbio. Portata per mano in pochi mesi dalla condizione di non iscritta alla guida del partito grazie allo Statuto del “nuovo Pd” improvvisato da Enrico Letta. Ed è certo che grazie a Letta, Franceschini e molti altri che con la sua sensibilità hanno poco da spartire, la segretaria ha portato con sé alla vittoria molti pacifisti interni e forse ancor più esterni al partito. Per dire però che a portarla alla vittoria sia stato il pacifismo, vorrei essere sicuro che il tema della pace e della guerra abbia avuto un ruolo significativo nelle primarie, ridotte ancora una volta a conte sulle persone ma non altrettanto sui contenuti.

La guerra, tuttavia, era già iniziata.

Sì. E da tempo. È anche per questo che il partito arriva a questo appuntamento con la Storia totalmente impreparato. Alla mercé dei talk show serali, con organi e riunioni totalmente esauriti dalle contese interne al ceto politico. Spero che dopo il voto a Strasburgo, di fronte alla grave spaccatura interna al gruppo Pd nel Parlamento Europeo, alla sconfitta della linea della segreteria alternativa a quella dei Socialisti Europei si prenda atto che così non si può continuare. Il tempo dei voti unanimi negli organi interni è veramente finito. Sembra incredibile che la libertà di voto e di parola viga ovunque all’infuori che negli organi interni del Pd.

Sul Corriere della Sera, Giorgio Tonini ed Enrico Morando pongono proprio il tema dell’isolamento internazionale del Pd tra le forze socialiste (francesi, tedesche e spagnole). Ovvero: se credi nel progetto federalista anziché nella via intergovernativa, devi accettare la sintesi collettiva che va in questa direzione. Hanno ragione?

Diciamo più semplicemente che è su questo tema che si decide oggi se la costruzione europea avanza o arretra. Se ripiega sulle vecchie statualità divise e unite dentro la Nato dal Big Brother che ha oggi il volto sfrontato e violento di Donald Trump, o se invece cresce nella sua unità dentro quella difesa comune immaginata da Alcide De Gasperi, armata di uno strumento militare condiviso che la protegga da ogni aggressione.

A giovarsi delle divisioni tra i dem è Conte, che si intesta con disinvoltura la protesta pacifista e riguadagna una centralità che i sondaggi e le ultime elezioni Regionali gli avevano sottratto?

Mi sembra evidente. L’abbiamo visto a Strasburgo: in piazza e poi unito nel voto con quello che fu il suo vice Matteo Salvini nell’indimenticabile governo giallo-verde. In competizione tra loro per un consenso che nel Paese è tanto esteso nella quantità quanto contraddittorio nella qualità, figlio com’è dell’alleanza tra un superficiale irenismo e un minaccioso sovranismo.

Arrivando al merito del piano; è il primo passo verso la mai realizzata difesa comune, come auspica Romano Prodi, oppure toglierà risorse a welfare e servizi, come denunciano in inedita convergenza sia la Lega che la sinistra?

Io credo che in un passaggio come mai prima drammatico bisogna usare parole di verità. Se non si capiscono le ragioni per resistere tanto vale arrendersi. Non ci sono scelte che non costano. E scaricare grazie al debito i costi sul futuro indebolisce il presente. Questo è il merito di chi aspira alla guida politica: la fatica, la dura fatica di spiegare il perché delle scelte, e ancora più quella di suddividere equamente i costi. Cominciando ad affinare lo sguardo e ad attivare interventi che distinguano tra chi degli armamenti paga le spese e quanti invece ci guadagnano. Spesso troppo.

Nessuno vuole essere ipocrita, ma nell’era della comunicazione le parole vanno pesate. Von der Leyen ha sbagliato a parlare di riarmo anziché difesa e sicurezza?

Le parole hanno un peso. Ha ragione. Ma il peso è sbagliato sia quando è maggiore della cosa evocata sia quando è di essa minore. Pur ministro della Difesa di un governo di sinistra ho cercato di definire le nostre missioni militari all’estero per quello che erano: “missioni per la pace”. “Per”. Come dissi in occasione del voto sul varo di Unifil2 “lunghe, rischiose, costose e tuttavia doverose”. Pur dimenticando i costi come ignorare almeno i morti e i feriti? Le morti che subivamo e quelle che producevamo o non riuscivamo ad evitare? Dovetti arrendermi. “Missioni di pace” si chiamavano. “Di” pace continuarono a venire chiamate. Le nostre orecchie, quelle di sinistra, ma anche quelle di destra di più non sopportavamo.

Insomma, meglio essere schietti, anche se la sintesi circoscrive il perimetro del progetto alla parte degli armamenti tralasciando, ad esempio, cybersicurezza e attacchi ibridi?

Difronte alle reazioni al ReArm quello che toglierei è semmai quel Re. Quale RiArmo? Come se l’Europa in quanto Europa sia stata un tempo armata! È così che è accaduto che finora sono coesistite nel Paese, spesso nelle stesse persone la dimenticanza e l’ostilità verso il fatto che avevamo messo la nostra sicurezza nelle mani degli Stati Uniti. Se negli ultimi tempi un errore abbiamo fatto è semmai quello di aver alimentato l’illusione che a proteggerci dall’aggressione potenziale e in corso sarebbero bastate le sanzioni o meccanismi alternativi agli armamenti.

L’Europa ha sempre compiuto grandi passi in momenti di emergenza – da ultimo durante il covid e con il Pnrr. Si può guardare il bicchiere mezzo pieno sperando che questa possa essere l’occasione per una politica estera e di difesa comune che restituisca al Vecchio Continente un peso al tavolo globale?

Speriamo. Si potrebbe allora dire che se Putin sarà ricordato come uno dei padri della nazione ucraina, Trump si è già ora candidato al titolo di fondatore della Difesa Europea.

di Federica Fantozzi su Huffpost

 

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