I dazi più pazzi di Trump
Il guano di Nauru, le mutandine dello Sri Lanka. I dazi più pazzi di Trump.
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Nell’ecatombe di caos globale scatenata dalla delirante conferenza stampa nel prato della Casa Bianca, mentre ci si interrogava sulle conseguenze per Cina, Europa o altri paesi importanti, pochissimi hanno avuto il tempo di verificare le ripercussioni catastrofiche per alcuni molto poveri, appena usciti da guerre e tensioni politiche, che esportano negli Stati Uniti gran parte della loro produzione e da loro ricevono una quota sproporzionata del loro prodotto interno lordo. Queste nazioni vittimizzate ora sono costrette a fare i conti con dazi elevatissimi che distruggeranno il loro settore industriale destinato all’esportazione, e qualcuna di loro si è vista tagliare da Elon Musk e dal famigerato Doge i sussidi e gli aiuti finanziari americani di cui godevano.
Nei paesi in via di sviluppo che rappresentano una piccola parte del deficit commerciale americano si avrà l’impatto più significativo sulla qualità della vita. Undici colpiti dai dazi hanno esportazioni verso gli USA che valgono oltre il 10% del loro PIL. Questi rappresentano circa il 9% delle importazioni statunitensi, tra cui Guyana, Cambogia, Vietnam, Nicaragua, Thailandia, Honduras e Lesotho. Nel 2023, le esportazioni di scarpe e abbigliamento verso gli USA costituivano circa il 3% del Pil del Vietnam (colpito da un dazio del 46%), dove aziende come Nike e American Eagle hanno investito in molte fabbriche. Anche il Bangladesh, che produce miliardi di dollari di abbigliamento, è stato colpito:l’idea che le fabbriche bengalesi – dove un lavoratore guadagna circa 10 dollari al giorno, a parità di potere d’acquisto – possano tornare negli USA, dove un lavoratore ne guadagna 127 – è peregrina. Resta solo il dazio del 37%.
Madagascar: la crisi della vaniglia
Alcune decisioni sembrano paradossali. L’isola africana del Madagascar (che ha un PIL pro capite di soli 506 dollari l’anno) ha esportato negli USA merci per 733,2 milioni di dollari, importandone per 53,4. Parliamo di una goccia nell’oceano degli scambi commerciali globali, dal lato americano, ma per i malgasci gli Stati Uniti sono il secondo mercato di esportazione. Vendono abbigliamento, un po’ di titanio, cobalto e nichel, e soprattutto la vaniglia. Sì, quella orchidea tropicale i cui baccelli servono per fare il gelato alla vaniglia. Il Madagascar è il principale esportatore mondiale di vaniglia, una coltura che richiede lavoro manuale intensivo e un clima tropicale. Nel 2023, ha esportato 143 milioni di dollari di vaniglia negli Usa. E anche se è impossibile che gli States vogliano creare un’industria della vaniglia in casa loro, i malgasci si beccano un dazio del 47%.
Lesotho, il regno dei jeans
Il Lesotho è un regno-enclave chiuso dentro il Sudafrica. Pochi lo conoscono, e lo ha detto con le stesse parole anche lo stesso Trump in conferenza stampa. Con soli 2,3 milioni di abitanti e uno dei paesi più poveri, si sono visti imporre una tariffa del 50%. Il regno ha costruito una forte industria tessile dal 2000, grazie a una misura degli Usa per favorire i paesi africani. Producono blue jeans: Levi’s, Wrangler, Foot Locker e Timberland, generando un surplus commerciale di 235 milioni di dollari con gli USA, grazie a 30mila operai. Paradossalmente, queste esportazioni sono nate da una scelta politica americana, e ora si chiede al Lesotho di importare più prodotti americani. Cosa mai dovranno importare? E con che soldi, se gli muore l’industria dei jeans?
Sri Lanka nel mirino, scarpe e mutandine
Lo Sri Lanka rischia di pagare caro il dazio del 44% voluto da Trump. L’industria dell’abbigliamento è il secondo motore economico del Paese, dà lavoro a oltre 350.000 persone e vale circa la metà dell’export. Le esportazioni verso gli Stati Uniti hanno generato 1,9 miliardi di dollari, tra i marchi, Nike e Victoria’s Secret. Il tutto avviene in un momento delicatissimo: dopo il collasso economico del 2022, il Paese era tornato a crescere (+5%) grazie al sostegno del FMI (quasi 3 miliardi di dollari) e degli aiuti indiani. Adesso le autorità promettono di aprire un negoziato ed eliminare alcune “barriere non tariffarie”.
Nauru e Fiji, vittime del successo della Kava e dell’acqua minerale
L’isola di Nauru, nel Pacifico, è la terza nazione più piccola al mondo. Un tempo ricca grazie al commercio del guano, fertilizzante ottenuto dagli escrementi fossili di uccelli marini, oggi esporta 1,16 milioni di dollari di merci verso gli USA, sottoposte a una tariffa del 30%. Un’altra piccola isola-Stato del Pacifico è Fiji: lì la tariffa è del 32%. Quale sarebbe la colpa? Secondo gli americani, è lo squilibrio nella bilancia commerciale, con esportazioni irrisorie di acqua minerale, kava, zucchero, pesce lavorato, taro, zenzero e curcuma. La kava è una bevanda tradizionale del Pacifico ricavata dalla radice di una pianta della famiglia del pepe, con effetti rilassanti, diciamo così. Il discorso dell’acqua minerale merita attenzione, perché per qualche strana ragione gli americani si sono innamorati dell’acqua delle Fiji. Il segretario al Commercio Howard Lutnick ha detto alla CBS che i suoi compatrioti dovrebbero bere acqua minerale americana, non quella di Fiji, che viene da una sorgente nell’isola di Viti Levu, ma è imbottigliata da una società californiana, spedita per migliaia di chilometri (con grandi emissioni di gas serra).
Le Falkland e altre isolette oceaniche disabitate
Abbiamo già parlato delle Falkland, territorio britannico, qui. Probabilmente c’è un errore nella tariffa del 41%, o è una mossa per favorire gli argentini dell’amico Milei. Oltre alle Falkland, il piano dei dazi nella lista dei paesi colpiti comprende remote isole australiane disabitate, territori offshore e persino una base militare. Ci sono le Isole Heard e McDonald, col 10%, a 4.000 chilometri a ovest dall’Australia, e a 1.700 dall’Antartide. Sono disabitate, se non da pinguini e foche, e totalmente prive di attività economica. Sempre australiana è l’isola Norfolk, nel Pacifico tra Australia e Nuova Zelanda, ha il 39%, con meno di duemila abitanti, mentre l’Australia paga il 10%. Le isole Cocos (popolazione: 544) e l’isola Christmas, famosa per la migrazione dei granchi rossi (1.692 abitanti), hanno il 10%. Dieci per cento anche per la base militare angloamericana di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, e Tokelau, territorio della Nuova Zelanda nel Pacifico meridionale con poco più di 1.600 abitanti. Tokelau è fatta da tre atolli corallini (Fakaofo, Atafu e Nukunonu) e non ha porti o aeroporti. Per andarci si prende una nave da Samoa che parte ogni due settimane per un viaggio di 24-36 ore.
Paesi in guerra: Siria, niente commercio, ma dazio al 41%
La lista dei dazi “reciproci” di Trump include, oltre a isole remote e territori insignificanti dal punto di vista commerciale, paesi impoveriti e instabili: Sud Sudan, Burundi, Repubblica Centrafricana, Siria. A questi si aggiunge il Sudan, nel caos di una guerra civile dimenticata. Qui non si esportano auto elettriche o chip, ma caffè, cotone, prodotti agricoli. Eppure, questi beni saranno colpiti da dazi tra il 10% e il 25%. Un paradosso: mentre si tagliano aiuti allo sviluppo (come i 7 milioni di dollari tolti al Sud Sudan, in guerra civile dal 2013), si colpiscono le economie di paesi che sopravvivono grazie all’export. In Burundi, tra i cinque paesi più poveri al mondo, dove il PIL pro capite è di 238 dollari l’anno, il caffè dà lavoro a 800.000 persone. Un dazio del 15% potrebbe far crollare le vendite e lasciare intere comunità senza reddito. Per la Siria, a parte che è in guerra civile da 15 anni, gli Usa hanno varato sanzioni contro il governo di Assad dal 2004. Gliscambi commerciali sono ridicoli: nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato dalla Siria beni per 10,7 milioni di dollari, mentre la Siria ha importato dagli Stati Uniti beni per 2 milioni. È logico e ragionevole che sia colpita da un dazio del 41%, il valore più alto dell’intero mondo arabo.
di HuffPost
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