Oltre le piazze per la pace c’è di più
Elly Schlein segua Matteo Renzi schierato in una campagna di opposizione a Meloni e alla sua classe dirigente.

Non si risparmia. Così come a mettere insieme i cocci del campo largo perché ci sono alcuni appuntamenti elettorali regionali che sarebbe cosa buona e giusta che il centrosinistra vincesse a mani basse
Se la Schlein deve scegliere tra la piazza per la pace di Conte e quella di Serra (l’ultima a Bologna), senza dubbi abbraccia quella dei 5Stelle. Chiara, limpida, comprensibile, affine a quelle che sono state da sempre le idee della sinistra. Ma non mi interessa qui esplorare le virtù migliori (i 5 Stelle ci stanno marciando sulla pace, per loro la campagna elettorale è già aperta). Perché verticalizzare la discussione sul futuro del centrosinistra sulla guerra in Ucraina e il progetto, vuoto, di riarmo dell’Unione europea è, da sempre, lo strano metodo tafazziano del centrosinistra per perdere anche le prossime elezioni politiche. È noioso quanto inutile proseguire a dividersi su un tema che fa emergere tre posizioni diverse anche nel centrodestra. Che governa. Lo ricordo perché la difficoltà, e quindi le opinioni sulla guerra, sono le medesime nell’eventualità che oggi al governo vi fosse il centrosinistra. Quindi, rewind. L’abbiamo capito.
Non sarà, invece, il caso di trovare la via per impiantare un’alternativa di centrosinistra a chi governa? La proposta è di metterci un bel crocione sopra e dare per acquisito i numeri tre o quattro di posizioni nel Pd sulla guerra. Si sa che la Schlein la pensa come i 5 Stelle. Ben prima delle uscite di Conte. Ma ha ereditato le scelte fatte dopo lo scoppio del conflitto, così come si è trovata accerchiata da opinioni del partito socialista europeo, e dei suoi leader, totalmente sbagliate, aggiungo io, come non è stata una genialata votare l’attuale commissione europea e la sua presidente von der Leyen, così come formare le liste del Pd per le europee un tanto al pezzo senza trovare prima una quadra programmatica sui temi più caldi poggiandosi, al contrario, sui classici slogan liturgici dell’Europa delle magnifiche sorti e progressive. La risposta è stata che la metà degli italiani non hanno votato. Si sa, la politica si fa con quello che c’è in menù.
Chiedere conto, ogni santo giorno, a Schlein sul conflitto in Ucraina, esercitare nei malmostosi talk tv (che viaggiano sulle corde dei film di Pierino tanto è monocorde il format di varia umanità che servono quotidianamente) le diverse posizioni solo per mettersi in bella mostra e baruffare con gli astanti, ragionare su temi che basterebbe storicizzare un po’ per trovare enormi errori di analisi e valutazione, tutto questo mentre lo stato di salute dell’Italia continua essere precario, ci appare questa la vera offesa verso la realtà.
I dolori del Pd e quelli della coalizione del centrosinistra sono noti. Non deve meravigliare vi siano posizioni diverse, idee plurime sui problemi, quello che manca è l’incapacità di stare insieme. Di darsi un codice di comportamento da rispettare. Nel PCI c’era il centralismo democratico ben esercitato dalla leadership di Berlinguer che al massimo doveva accordarsi con un altro partito, i socialisti, per governare i comuni e le regioni (per il governo del Paese è arrivata prima la Dc di Moro, questo per dire nel centrosinistra di 50 anni fa andava come oggi). Nel Pd vi sono 12 o 13 correnti, nella coalizione ipotetica un borderò di partiti, partitini, liste civiche. Con alcune incognite. I 5stelle vorranno far parte della coalizione? E Calenda si assesterà a spararne una più ridondante dell’altra? Così stando le cose tutti quanti saranno costretti a ritornare alla casa del padre. La coalizione del centrosinistra.
Ed è quello che va ripetendo Matteo Renzi (non amato da quelli del Pd, ma se ne faranno una ragione), ormai in una condizione zen, sponsor della prima ora del lavoro defatigante della Schlein, mettere insieme la coalizione del centrosinistra per vincere le prossime elezioni politiche. Strano che questo banale elemento pratico sia sfuggito ai più. Tenuta ferma la legittima competizione elettorale che deve rimanere tra partiti, sarebbe opportuno però che i vari leader iniziassero a pensare luoghi, spazi, regole per arrivare a questo traguardo, dal quale, fatti due conti con l’abaco, non possono sfuggire. Non è un caso lo ricordi Renzi, un leader di razza che nei suoi ragionamenti ha levato le pregiudiziali pesanti che aveva nei confronti di Conte (addirittura lo ha mandato a casa da Palazzo Chigi e queste sono ferite che rimangono) e dei 5 Stelle. Oggi l’ex premier è schierato apertamente in una campagna di opposizione alla Meloni e alla sua classe dirigente. Non si risparmia. Così come a mettere insieme i cocci del campo largo perché di fronte ci stanno alcuni appuntamenti elettorali regionali che sarebbe cosa buona e giusta che il centrosinistra vincesse a mani basse. Inoltre Renzi è il solo leader di partito che ha indicato Schlein premier di un futuro governo progressista.
È giunta l’ora di sistemare nero su bianco, in vista della costruzione della coalizione, il principio proprio del centrodestra, farà il premier il leader di partito che prenderà più voti. Perché qui sta il nocciolo del problema, la leadership di governo. Un motivo di chiarezza che spazzola via quei movimenti centrini centristi di calare dall’alto la personalità alla quale si vuole bene e che farà bene per grazia ricevuta. Parimenti nel Pd varrebbe la pena fermare la scia ‘got talent’ e concentrare il dibattito, il ben amato dibattito, all’interno del partito e uscire con posizioni delle quali si fa interprete fedele solo la
di Maurizio Guandalini su HuffPost
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