L’avvocatura italiana non è una categoria
La storia degli avvocati italiani costituisce un campo di studi ampio e ancora poco esplorato. Hannes Siegrist vi ha dedicato uno studio “Gli avvocati nell’Italia del XIX secolo. Provenienza e matrimoni, titolo e prestigio”.
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L’autore ha preso in esame le condizioni del Nord (Milano), del Centro (Firenze, Toscana) e del Mezzogiorno (Napoli). Ha indagato, compiutamente, i rapporti tra professione, identità cetuale e condizione borghese.
Quella dell’avvocato è, in Italia, un’antica professione che richiede specifica formazione e che, in alcune zone, affonda le radici in una lunga tradizione di autonomia corporativa.
Gli avvocati costituivano, professionalmente, economicamente, politicamente ed ideologicamente un’assai differenziato ed eterogeneo gruppo professionale.
Anche socialmente sussistevano considerevoli differenze che, tuttavia, apparivano secondarie rispetto ad una fondamentale caratteristica comune: gli avvocati venivano reclutati nell’area della borghesia, in cui trovavano anche moglie, aspiravano ad uno status borghese e tale status spesso conseguivano.
All’inizio del XIX secolo c’erano ancora relitti dell’epoca in cui l’avvocatura era stata una nobile professione.
Nel complesso gli avvocati si distribuivano con relativa ampiezza all’interno di un ceto borghese intermedio in cui gli elementi dell’antica borghesia cittadina di estrazione patrizia si fondevano con gli elementi dinamici e statici della borghesia colta e possidente, in cui rientrava il piccolo borghese allo stesso modo del piccolo nobile imborghesito e del facoltoso avvocato alto borghese.
Si andava dall’avvocato della piccola città che viveva modestamente fino ai grandi avvocati – politici di risonanza nazionale.
Oggi il quadro socio – economico è profondamente cambiato.
La demografia forense si è sviluppata molto rapidamente con progressione geometrica, in gran parte fungendo da ammortizzatore sociale di un’economia in declino e per altro verso alla ricerca dello status sociale irrimediabilmente perduto.
Oggi in Italia vi è un esercito di 243 mila avvocati caratterizzati, in gran parte, da un tasso culturale assai modesto, per lo più amorfi, indifferenti, del tutto incapaci di costituire una categoria sociale.
Le categorie sociali sono la risultante di una costruzione teorica mediante la quale il sociologo raggruppa idealmente in una stessa “unità sociale” individui con caratteristiche comuni, così da poterli studiare.
L’avvocatura italiana oggi sfugge ad una classificazione di questo tipo essendo formata da un coacervo di individualità spesso in conflitto tra di loro.
La cartina di tornasole è data dalla vicenda dei cd. “ineleggibili” secondo legge e secondo l’interpretazione della Suprema Corte di Cassazione.
Molti dei cd. ineleggibili si sono sottratti sia alla legge che alla sua interpretazione riproponendosi nella rappresentanza. Solo 21 marziani hanno inteso sottoscrivere il ricorso al TAR del Lazio nel tentativo di ripristinare un po’ di legalità. Su 243 avvocati la percentuale dei ricorrenti è pari al 0,0086%.
Non credo vi sia bisogno di altre parole per affermare che l’avvocatura italiana non è una categoria sociale.
L’8 maggio p.v. si terrà la Camera di Consiglio per la trattazione della sospensiva avanti la Prima Sezione del TAR Lazio con NRG 3767/2019.
In queste vicende l’interesse pubblico è il convitato di pietra che va sempre valutato.
La misura cautelare, parafrasando Calamandrei, ha lo scopo immediato di assicurare l’efficacia pratica del provvedimento definitivo.
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