Anno: XXV - Numero 214    
Giovedì 21 Novembre 2024 ore 13:20
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Noi medici ieri eravamo eroi, oggi siamo vittime di una caccia alle streghe

Intervista di HuffPost a Stefano Perlini, responsabile del Pronto soccorso del San Matteo di Pavia

Noi medici ieri eravamo eroi, oggi siamo vittime di una caccia alle streghe

“La definizione di eroi nei mesi scorsi ci sembrava esagerata. Noi facevamo solo il nostro lavoro e cercavamo di farlo al meglio. Ma il clima che si è creato oggi nei nostri confronti fa male. Questa caccia alle streghe non serve a nessuno. E non ci aiuta ad andare avanti”. L’amarezza per il presente si mescola di continuo con i ricordi del recente passato nelle parole del dottor Stefano Perlini. Il responsabile del Pronto soccorso dell’ospedale di Pavia – una delle prime strutture che si è trovata a fare i conti con il coronavirus – è un fiume in piena quando racconta la fase più acuta dell’emergenza Covid. “Abbiamo vissuto settimane veramente terribili, facendo tutti gli sforzi per contrastare qualcosa che non conoscevamo, che faticavamo a capire. Ci confortava il sostegno delle persone”, dice ad HuffPost. Un sostegno che, passato lentamente lo tsunami, sta venendo meno. E nei confronti di quelli che erano considerati gli eroi anticovid iniziano ad arrivare gli esposti in procura di chi chiede di accertare responsabilità per errori, eventualmente, compiuti in corsia in quelle settimane di fuoco. “Per ora non sono arrivate denunce nei confronti del nostro team, ma ne arrivano in altre strutture della Lombardia. E, alla luce di tutto quello che abbiamo vissuto, fa male”. Come un film, nella mente del dottor Perlini scorrono i ricordi di quei giorni così complicati “per chi era in ospedale e per chi stava fuori”, in cui si doveva fare in conti non solo con le cure, ma con scelte operative da fare ogni giorno. Bisognava essere veloci e lucidi. E non perdere di vista nessun dettaglio. “Dovevamo calcolare quanto ossigeno ci sarebbe servito, di quante bombole avremmo avuto bisogno, di quanti posti letto”, ricorda. Dello scudo penale nei confronti dei sanitari – di cui non c’è ancora traccia, anche se in una prima fase se ne era discusso e se per alcuni studiosi, come il prof. Cristiano Cupelli, sentito pochi giorni fa da HuffPost, è assolutamente necessario – Perlini dice: “Credo sia importante. Non perché non vogliamo riconoscere errori eventualmente fatti, ma perché non si può non tener conto del contesto”. E proprio di quel contesto ci ha parlato, raccontando i giorni più difficili per lui e il suo team. Domanda. Dottore, di recente i medici del pronto soccorso che lei dirige hanno scritto una lettera aperta per lamentare il cambio di atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dei sanitari. Da eroi state diventando sempre di più un bersaglio, come se la colpa di morti e contagi fosse anche vostra. Perché? Risposta. Quelle parole sono state scritte da una collega, e condivise da molti di noi, per ricordare i mesi terribili che abbiamo vissuto. Eravamo in uno tsunami, ci trovavamo di fronte a qualcosa che non capivamo bene, che non conoscevamo. Che era sostanzialmente inaspettato. Per l’ospedale di Pavia c’è un prima e un dopo: la cesura è la notte tra il 20 e il 21 febbraio, quando è stato scoperto il paziente 1 (trasferito il 22 febbraio da Codogno a Pavia, ndr). Da quel momento non ci siamo più fermati. Posso dire intanto che la definizione di eroi, che ci veniva spesso data dall’opinione pubblica in quei giorni, ci sembrava esagerata. Noi stavamo facendo il nostro lavoro e cercavamo di farlo al meglio. Però adesso vedere, soprattutto nelle ultime settimane, questo cambio di clima nei nostri confronti fa male. D, Varie strutture della Lombardia sono oggetto di esposti in procura. A cosa è dovuto questo approccio diverso nei confronti dei sanitari? R. Per ora noi non abbiamo ricevuto nessun esposto, ma altri nostri colleghi in altre strutture della regione sì. Non so esattamente perché sia cambiato l’atteggiamento nei nostri confronti, quello che mi sento di dire è che questa caccia alle streghe non fa bene a nessuno. E, proprio alla luce di questo, le dichiarazioni – anche quelle di politici ed economisti – andrebbero calibrate tenendo in conto il dramma che abbiamo vissuto. Tutti, dentro e fuori dagli ospedali. Abbiamo passato mesi di grande paura, noi medici non eravamo esclusi da questo sentimento. E fa veramente male vedere che ora, invece di cercare di capire cosa si possa ancora fare per combattere la pandemia, – e per scongiurare una seconda ondata – si faccia a gara per capire chi è più responsabile. D. Nel pieno dell’emergenza la politica aveva iniziato una discussione sullo scudo penale per i medici, che poi è andata spegnendosi. Lei pensa sia utile? R. Sì, credo sia importante. Non perché non vogliamo riconoscere errori eventualmente fatti, ma perché non si può non tener conto della situazione eccezionale. Un conto è la colpa grave, che va sanzionata, un altro conto sono gli errori eventualmente compiuti in un contesto assolutamente fuori dal comune. D. Il vostro è stato uno degli ospedali che per primo ha dovuto affrontare la pandemia. Che ricordi ha di quelle settimane? R. Ho in mente lo sforzo nel dover affrontare un virus sconosciuto. La difficoltà nel dover imparare rapidamente a gestire una malattia nuova, peraltro infettiva. Nell’essere costretti, giorno dopo giorno, a trovare il tempo per sedersi e ragionare su cosa si dovesse fare. Per valutare se qualcosa ci stesse sfuggendo. A ciò si aggiungeva anche la complessità nel dover comunicare ai familiari dei pazienti il loro stato di salute o, in alcuni casi, la morte. Noi medici del Pronto soccorso non siamo nuovi a questo tipo di comunicazioni. Ma doverle fare per telefono, non guardando negli occhi la persona a cui stai dando una brutta notizia, è molto più complesso. Questa è stata una parte molto difficile, ma mi ha fatto piacere che di recente alcuni familiari di persone decedute ci abbiano voluto incontrare, per vederci per la prima volta in faccia. D. In quei giorni sembrava che tutto il Paese fosse dalla vostra parte. R. Già, un’altra cosa che ricordo è la grande solidarietà della popolazione. Non ci siamo mai sentiti soli perché c’era chi, attraverso un messaggio, un fiore, una donazione, ci faceva arrivare il suo sostegno. Ecco, io vorrei che di quello spirito si facesse tesoro per il futuro. D. Al momento sembra che non stia accadendo proprio questo. Ma torniamo a quei giorni terribili. Quanti malati di Covid avete accolto? Guardi, all’inizio della pandemia in un giorno abbiamo avuto 300 accessi Covid in pronto soccorso. Si tratta di un numero elevatissimo: pensi che in una giornata normale, arrivavamo a un massimo di 170 pazienti. Che, in ogni caso, andavano trattati e gestiti in una maniera diversa rispetto a chi ha una malattia molto infettiva e necessita di isolamento, come i contagiati dal Coronavirus. Alla luce di questo, risulta ancora più chiaro cosa possa significare visitare 300 persone che si rivelano positive al tampone. In totale, in due mesi e mezzo, abbiamo accolto 3700 pazienti Covid. Di questi, 1300 sono stati ricoverati, gli altri sono stati mandati in isolamento domiciliare. Ma anche questo era complicato: tu sai che stai mandando a casa una persona che, però, non deve assolutamente avere contatti con altri. Non è cosa di poco conto. D, Vi siete trovati anche a fare i conti con strumenti che scarseggiavano. Quante ore al giorno trascorrevate in reparto? R. Guardi, io ricordo solo che entravamo lì la mattina e uscivamo in tarda serata. Faceva un effetto terribile dismettere i dispositivi di protezione “da astronauta”, immettersi in strade vuote come in guerra e pensare “cosa sta succedendo?”. D. Come è cambiato il vostro lavoro? R. Per rendere l’idea di come il Covid abbia stravolto tutto, basti pensare che in quelle settimane abbiamo usato una quantità di ossigeno giornaliera cinque volte superiore al fabbisogno in tempi normali. E così ogni giorno, oltre a stare attenti a comunicare costantemente con i parenti dei pazienti ricoverati, dovevamo calcolare quanto ossigeno ci serviva, di quante bombole avevamo bisogno. Di quanti posti letto. Era una sfida quotidiana, affrontata con il supporto di tutto l’ospedale. Sa cosa penso a riguardo? D. Cosa? R. Che sono stati più ‘eroi’ di noi gli ingegneri e i muratori che di notte spostavano le apparecchiature che ci sarebbero servite il giorno dopo. E penso lo stesso dei tecnici, dei portatori di barelle. Io non ho mai sentito nessuno di loro dire “no, un turno in più io non lo faccio”. Eravamo in un mare in tempesta, tutti insieme. E mette molta tristezza pensare che rischiamo di diventare un bersaglio di chi cerca di attribuire a tutti i costi a qualcuno la colpa di questa tragedia.

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