La lettura “neoliberista” della riforma della previdenza forense
La riforma ha “liberalizzato” i diritti previdenziali di chi si iscriverà dal 1° gennaio 2025.
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La riforma della previdenza forense, che entrerà in vigore il 1° gennaio 2025, ha operato su di una demografia ipertrofica, ancorché in fase calante per gli elevati costi che comporta, e su di una reddittività solo recentemente in ripresa, ma che ha però diviso la categoria in due classi, quella in bonis che cuba l’8% del totale ma che si arrocca sul 50% del PIL complessivo, e quella povera che arranca sul restante 50% del PIL.
La riforma, secondo la mia lettura, consapevolmente o inconsapevolmente, ha “liberalizzato” i diritti previdenziali di chi si iscriverà dal 1° gennaio 2025, sul presupposto che occorra riconoscerli solo se vi è la sostenibilità finanziaria.
Con l’opzione al sistema di calcolo contributivo, puro per i neo iscritti dal 01.01.2025, si pensa di averla raggiunta, sacrificando però la previdenza dei nuovi iscritti i quali, se non avranno la fortuna di guadagnare abbastanza, si troveranno alla fine del loro percorso lavorativo a vedersi liquidare una pensione pari, o addirittura inferiore, all’assegno sociale INPS, tipica misura assistenziale in difetto di contribuzione.
La cosa grave è che siffatta riforma, neoliberista perché affida al mercato il destino previdenziale dei nuovi iscritti, sia stata assentita dai Ministeri vigilanti.
Al pari del keynesismo, il neoliberismo non è solo una tecnica di governo dell’economia ma anche un complesso sistema di pensiero che incorpora una visione di cosa è e di cosa deve essere la società e di come deve essere gestito il potere.
In buona sostanza con la riforma, per far quadrare i conti in termini di sostenibilità che si è però abbassata a 30 anni anziché ai 50 previsti dalla legge, è stata ridotta la spesa pensionistica e aumentata la contribuzione lasciando al mercato il destino previdenziale dei nuovi iscritti.
Ma questa è previdenza?
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