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Il referendum sul Jobs Act? Non si è ancora svolto, ma è già vecchio e superato

Per Marco Leonardi, ex consigliere economico di Renzi, il quesito riporta indietro il dibattito a dieci anni fa, ignorando le modifiche avvenute nel frattempo.

Il referendum sul Jobs Act? Non si è ancora svolto, ma è già vecchio e superato

Il referendum sul Jobs Act nasce già vecchio. È questo, secondo il professor Marco Leonardi, il problema principale del quesito proposto dalla Cgil e ammesso dalla Corte costituzionale, che vorrebbe ripristinare il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. Per Leonardi, che era parte dello staff di Matteo Renzi al tempo della stesura del Jobs Act, “sollevare adesso il dibattito su licenziamenti, occupazione e precariato rischia di fare il gioco del governo, perché guardando i dati si vede che non è un problema di attualità”. Come Giorgia Meloni non manca di rivendicare, i dati economici più recenti hanno un andamento positivo e le serie storiche dell’Istat confermano il netto miglioramento dello scenario occupazionale rispetto a quello precedente al Jobs Act. Il tasso di occupazione è aumentato dal 55,6 per cento (marzo 2015) al 62,4 per cento (novembre 2024), che in numeri assoluti corrisponde a un aumento di oltre 2 milioni di lavoratori. Sul fronte opposto, la disoccupazione è scesa dal 12,6 per cento (3,2 milioni in cerca di lavoro) al 5,7 per cento (1,5 milioni), meno della metà di dieci anni fa.

“L’unico referendum con qualche speranza di successo era quello sull’autonomia differenziata, che però non è stato ammesso dalla Corte costituzionale”, ha detto ad Huffpost il professor Leonardi, che attualmente insegna Economia politica all’Università degli Studi di Milano. “Ora il rischio è quello di concentrare tutte le attenzioni sui quesiti in tema di lavoro, esasperando un dibattito che farebbe danni prima di tutto al centrosinistra. Al tempo dell’approvazione del Jobs Act, tutti i deputati e senatori del centrosinistra lo avevano votato, con pochissime eccezioni, per cui si rischia di creare una frattura interna al campo”. Nel voto finale alla Camera, tra i deputati del Partito Democratico solo Giuseppe Civati e Luca Pastorino (poi fuoriusciti) avevano votato contro il provvedimento, mentre altri due deputati si erano astenuti. La riproposizione del dibattito aprirebbe inevitabilmente la spaccatura tra chi rivendica il provvedimento e chi lo rinnega, mettendo a rischio l’unità del partito. “Queste divisioni si sarebbero potute nascondere dietro a una vittoria sul fronte dell’autonomia, ma senza quel quesito la campagna referendaria rischia di indebolire un campo che non ne ha certo bisogno”, ha proseguito Leonardi.

Nelle intenzioni della Cgil, l’abrogazione delle norme del Jobs Act ripristinerebbe l’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Prima di Renzi, però, già il governo di Mario Monti aveva messo mano sull’Articolo 18, ridimensionando la portata del reintegro. “Nella riforma del lavoro del 2012 la ministra Fornero aveva previsto di abolirlo, ma un compromesso dell’ultimo minuto raggiunto con Bersani (allora segretario del PD, ndr) aveva portato a una rimodulazione: il reintegro non era stato del tutto eliminato, ma ammesso soltanto se il fatto era ‘insussistente’”. In caso di vittoria del ‘sì’ all’abrogazione, quindi, sarebbe questa la versione a cui si farebbe ritorno. “La formulazione era molto vaga, frutto di un compromesso politico più che di un’esigenza reale, e aveva reso complicata la sua applicazione nei casi concreti. Per questo motivo Renzi intervenne col Jobs Act, eliminando del tutto il reintegro e sostituendolo con le tutele crescenti”, ha sottolineato Leonardi.

Con questo provvedimento, il governo voleva mettere le imprese nelle condizioni di conoscere con certezza i costi che avrebbe comportato il licenziamento di un dipendente, stabilendo un intervallo di mensilità da corrispondere in caso di ingiusto licenziamento. In origine questo era fissato tra 4 e 24 mensilità, poi ampliato tra 6 e 36 mensilità dal Decreto Dignità voluto dal Movimento 5 Stelle nel 2019. “Le imprese hanno bisogno di sapere quanto costa licenziare un dipendente, altrimenti freneranno anche le assunzioni per timore dei costi incerti. Per questo il Jobs Act prevedeva anche un automatismo per calcolare l’indennizzo del lavoratore licenziato: l’importo da corrispondere doveva essere pari a due mensilità per ogni anno di anzianità nell’azienda”, ha spiegato Leonardi.

Nel 2018, però, la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo il meccanismo automatico, sostenendo che il giudice dovesse mantenere un margine di discrezionalità nel calcolo dell’indennizzo da corrispondere al lavoratore, pur all’interno del tetto massimo previsto. “Così facendo i costi sono diventati più incerti, ma si può dire che in questo modo il Jobs Act ha trovato il suo punto di equilibrio. La prova è che il tema è sparito dal dibattito pubblico, anche perché l’esplosione dei licenziamenti che si temeva non c’è stata nei fatti”.

Secondo Leonardi, quindi, riportare le lancette del dibattito pubblico indietro di dieci anni sarebbe un errore. “In questo modo si rischia di non parlare dei veri problemi del mondo del lavoro su cui il governo Meloni non sta intervenendo, a cominciare dai salari bassi e dalla sottoccupazione oraria”. Una guerra interna all’opposizione su temi anacronistici rischierebbe quindi di trasformarsi in un assist per il centrodestra. “L’attenzione ossessiva per il Jobs Act nasconde e giustifica un governo che non introduce il salario minimo e non interviene sul fiscal drag (l’aumento della pressione fiscale come conseguenza dell’inflazione, ndr), che ha portato via 25 miliardi di euro dalle tasche dei dipendenti”.

di Matteo Negri su Huffpost

 

 

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