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Niente sequestri a chi è assolto. La Cassazione torna allo Stato di diritto

Sentenza rivoluzionaria sulle misure di prevenzione del Codice antimafia: i "reati presupposti sono indizi di pericolosità solo se accertati in un processo penale.

Niente sequestri a chi è assolto. La Cassazione torna allo Stato di diritto

Una recente sentenza della Corte di cassazione (n. 45280/ 2024), le cui motivazioni sono state depositate lo scorso 10 dicembre, contiene importanti affermazioni che, ove recepite, permetteranno di riallineare il sistema di prevenzione italiano al diritto convenzionale europeo.

Partendo dalla necessità di una perimetrazione cronologica della pericolosità sociale, per evidenziarne la correlazione temporale con l’acquisto dei beni di cui sia chiesta la confisca, la Corte ritiene che vada individuato un affidabile dies a quo della pericolosità, al fine di ricostruire “condotte seriali che dimostrino l’attitudine alla commissione di reati produttivi di profitti illeciti”, ma anche una sequenza suscettibile di determinare l’acquisizione di un profitto illecito. La condotta pericolosa deve essere abituale e non sporadica, e deve trattarsi di delitti commessi in un arco temporale “non esiguo”, che abbiano costituito quantomeno una rilevante fonte di reddito per il soggetto proposto.

Fin qui, si tratta di concetti che già altre pronunce della Cassazione avevano fatto propri, anche se ora vengono precisati in modo più sistematico, quale spunto per ulteriori approdi. La Cassazione infatti affronta l’importante tematica della autonomia del Giudice della prevenzione e dei limiti che egli incontra nel valutare fatti già accertati in sede penale. Limiti che una cospicua parte della giurisprudenza minimizza, sulla presupposta autonomia tra i due diversi giudizi. Stavolta, tuttavia (ed è questa la novità più rilevante) la Corte richiama esplicitamente l’articolo 6 comma 2 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, ritenendo che il principio della valutazione autonoma non possa andare oltre le sentenze assolutorie penali: lo stesso fatto, una volta escluso dal Giudice penale, non può essere assunto come elemento indiziante per il giudizio di pericolosità nella procedura di prevenzione.

Per motivare le proprie ragioni, la Cassazione cita espressamente la sentenza del marzo 2023, emessa dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo nella procedura Rigolio c/ Italia, in cui il Giudice convenzionale ha ricordato che la presunzione di innocenza opera su di un piano endoprocessuale e su di un piano extraprocessuale.

Nel primo caso – nel quale impone condizioni riguardanti soprattutto l’onere della prova – la presunzione impone al Giudice, chiamato a constatare la sussistenza di un reato, di non “partire dall’idea preconcetta che l’imputato abbia commesso il fatto di cui è accusato” e di considerare “che il dubbio deve giovare all’imputato”.

Nel secondo, la presunzione di innocenza comporta che i soggetti che hanno beneficiato di una assoluzione o di una sospensione delle imputazioni non possano essere “trattati da pubblici ufficiali o autorità come se fossero colpevoli effettivamente del reato loro imputato”.

Ora, ricorda la Cassazione, quando si pone la questione dell’applicabilità dell’articolo 6 comma 2 Cedu in un procedimento successivo, che sia connesso a quello penale concluso con assoluzione, a venire in rilievo non è solo e non è tanto il divieto di doppio giudizio, ma quello di “non contraddizione”, che è uno dei pilastri dell’ordinamento. Non si può essere assolti per un fatto ritenuto insussistente ed essere riconosciuti socialmente pericolosi per la sussistenza del medesimo fatto.

Ma gli ulteriori spunti di riflessione che la sentenza offre sono notevoli e in certa misura “rivoluzionari” per il sistema di prevenzione. Invocare, in materia, non la presunzione di non colpevolezza contenuta nell’articolo 27 Cost. (che riguarda solo l’“imputato”), ma la presunzione di innocenza convenzionale (che, invece, si applica all’“accusato di un reato”), significa porre il giudizio di pericolosità sotto l’egida di una regola di giudizio secondo la quale il proposto non potrà essere ritenuto socialmente pericoloso sino al “legale accertamento” di un reato. Infatti, i vari cataloghi di pericolosità qualificata e semplice – quest’ultima, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale con sentenza 24/ 19 – si fondano tutti sulla constatazione di uno o più delitti presupposti. Sicché ben può dirsi, oggi, che il proposto per misura di prevenzione è accusato, anche se non imputato, di un fatto delittuoso.

Egli, dunque, deve poter beneficiare della presunzione di innocenza e deve poter pretendere il previo “legale accertamento” del delitto presupposto rispetto all’accertamento di pericolosità.

Ma il procedimento di prevenzione non è, strutturalmente, luogo per l’accertamento della colpevolezza, come spesso abbiamo scritto. La soluzione passa dalla procedimentalizzazione piena della prevenzione, da sottoporre a tutti i postulati del giusto processo enunciati all’articolo 111 della Costituzione.

Oppure dalla rigida pregiudizialità penale, come pare invece suggerire la Cedu nelle ordinanze rese nel caso Cavallotti e procedimenti riuniti.

Entrambe le strade, che auspichiamo possano essere percorse dal legislatore italiano e dai Giudici di Strasburgo, avrebbero una comune finalità poiché dimostrerebbero che la prevenzione non è altro che una duplicazione dell’intervento repressivo statuale a fronte del medesimo fatto. Certificando così il carattere punitivo del sistema della prevenzione, la sua finalità punitiva e, in definitiva, la sua complessiva inutilità.

Il Dubbio

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