Trump va allo scontro con Harvard e i suoi seguaci.
Il presidente insulta l'ateneo ("è una barzelletta") e il corpo docenti ("cervelli di gallina") e ribadisce lo stop ai fondi federali.
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Ma il contagio è partito: Yale si mobilita, la Columbia ritrova coraggio, i ricercatori vogliono emigrare, gli studenti prenotano le università canadesi. Persino il guru dell’Nba Steve Kerr mette la maglietta di Harvard.
Che il caso di Harvard abbia aperto un nuovo fronte di resistenza al disegno autoritario di Donald Trump lo conferma la veemenza con cui, nelle scorse ore, il presidente americano è tornato ad attaccare l’Università. Il meccanismo è abbastanza basilare: più qualcosa (o qualcuno) dà fastidio al presidente, più diventa il bersaglio preferito delle sue invettive su Truth Social. È quello che è successo all’Università di Harvard, rea di aver rifiutato di assoggettarsi ai dettami della Casa Bianca. “Tutti sanno che Harvard ha ‘perso la strada’ […]. Harvard ha assunto quasi tutti gli idioti e i cervelli di gallina della sinistra radicale che sono solo capaci di insegnare il fallimento agli studenti e ai cosiddetti ‘futuri leader'”. E ancora: “Harvard non può più essere considerata nemmeno un luogo di apprendimento decente e non dovrebbe comparire in nessun elenco delle grandi università o college del mondo. Harvard è una barzelletta, insegna odio e stupidità, e non dovrebbe più ricevere fondi federali”.
Il guaio, per Trump, è che la presa di posizione di Harvard sta già producendo effetti nel mondo accademico e non solo, con altri grandi atenei – da Yale alla Columbia – che si stanno mobilitando per fare fronte comune contro le ingerenze della Casa Bianca. Come nel caso del balletto sui dazi, è il costo reputazionale l’elemento che Trump sembra sottovalutare. La questione della fuga dei cervelli dagli Stati Uniti era già stata sollevata a inizio mese da Science; dopo le ultime due settimane, è facile immaginare come la percentuale già altissima (il 75%) di ricercatori che consideravano di lasciare il Paese a causa delle politiche di Trump sia aumentata. L’impatto si sta avvertendo anche in Canada, le cui università hanno registrato un’impennata delle domande di ammissione da parte di studenti residenti negli Stati Uniti.
A spingere gli universitari oltreconfine è il congelamento, da parte dell’amministrazione, di centinaia di milioni di dollari di finanziamenti federali per numerose università, ma anche i ripetuti casi di arresti ed espulsioni di studenti stranieri che avevano preso parte a manifestazioni pro-palestinesi: azioni che hanno sollevato preoccupazioni sulla libertà di parola e sulla libertà accademica negli Stati Uniti. Queste preoccupazioni hanno aumentato l’attrattività del Canada come meta di formazione universitaria. Gli effetti – come riporta il Guardian – si sentono già: i funzionari del campus di Vancouver dell’Università della British Columbia (UBC) hanno dichiarato che l’università ha registrato un aumento del 27% delle domande di ammissione da parte di cittadini statunitensi al 1° marzo per i programmi che inizieranno nell’anno accademico 2025, rispetto a tutto il 2024. Anche l’Università di Toronto, la più grande università canadese per numero di studenti, ha segnalato un aumento delle domande di ammissione provenienti dagli Stati Uniti entro la scadenza di gennaio per i programmi del 2025, mentre l’Università di Waterloo ha riscontrato un aumento dei visitatori statunitensi al campus e un maggiore traffico web proveniente dagli Stati Uniti da settembre. Gage Averill, rettore e vicepresidente accademico dell’UBC Vancouver, ha attribuito l’impennata delle domande di ammissione negli Stati Uniti alla brusca revoca dei visti degli studenti stranieri da parte dell’amministrazione Trump e all’intensificarsi dei controlli sulle loro attività sui social media.
Le ripercussioni sulla competitività del Paese di questo conflitto tra il mondo universitario e il governo federale sono difficili da stimare, ma c’è la sensazione di essere di fronte a uno scontro più ampio. Le università della Ivy League sono istituzioni potenti, con grandi donatori alle spalle e in grado di mobilitare alcune delle personalità più influenti d’America. È il caso di Steve Kerr, allenatore dei Golden State Warriors, tra le squadre più forti della National Basketball Association, nonché commissario tecnico della nazionale statunitense. Kerr non è un ct qualunque: nato in Libano (dove ha passato gran parte della sua infanzia al seguito del padre che lavorava lì come presidente dell’Università Americana di Beirut, prima di essere assassinato da membri della Jihad islamica), Kerr è considerato uno degli uomini più brillanti degli Usa, nonché un mago della comunicazione. Non ha mai fatto mistero delle sue opinioni politiche, esprimendo dure critiche alla prima presidenza Trump e spendendosi in prima persona per la campagna elettorale di Kamala Harris. Martedì è tornato politicamente in campo, presentandosi alla conferenza stampa post-partita a San Francisco, dopo la vittoria dei Golden State contro Memphis, con indosso una maglietta di Harvard. Ha detto che è stato il suo amico Tommy Amaker, allenatore di basket di Harvard, a fargliela avere. “Ho pensato che fosse il giorno perfetto per indossarla”, ha detto Kerr, elogiando la sfida dell’università del Massachusetts all’amministrazione Trump. “Credo nella libertà accademica e penso che sia fondamentale che tutte le nostre istituzioni possano gestire i propri affari come ritengono opportuno. Non dovrebbero essere molestate o sentirsi dire dal governo cosa insegnare e cosa dire… È la cosa più stupida che abbia mai sentito. Ma ormai è la norma. Quindi sì, sostengo Harvard: ben fatto per aver tenuto testa al bullo”.
Dopo “l’esempio di Harvard” – così lo ha definito l’ex presidente Barack Obama nel suo primo intervento pubblico contro l’amministrazione Trump – il corpo docente di Yale (un’altra importante istituzione della Ivy League) ha chiesto ai propri dirigenti di “resistere e contestare legalmente qualsiasi richiesta illegittima che minacci la libertà accademica e l’autogoverno”. “Ci troviamo insieme a un bivio”, si legge in una lettera firmata da 876 docenti di Yale. “Le università americane stanno affrontando attacchi straordinari che minacciano i principi fondamentali di una società democratica, inclusi i diritti di libera espressione, associazione e libertà accademica. Vi scriviamo come un’unica facoltà, per chiedervi di schierarvi al nostro fianco ora”. Sebbene la lettera non menzioni specificamente Harvard, chiede ai vertici di Yale di “collaborare in modo mirato e proattivo con altri college e università in una difesa collettiva”. Sostegno è arrivato anche dall’Università di Stanford. “Le università devono affrontare le critiche legittime con umiltà e apertura. Ma il modo per realizzare un cambiamento costruttivo non è distruggere la capacità di ricerca scientifica del Paese, né far sì che il governo assuma il controllo di un’istituzione privata”, hanno dichiarato martedì il presidente di Stanford Jonathan Levin e la rettrice Jenny Martinez in una dichiarazione. “Le obiezioni di Harvard alla lettera ricevuta sono radicate nella tradizione americana di libertà, una tradizione essenziale per le università del nostro Paese e che vale la pena difendere”, hanno aggiunto.
Da notare la sincronicità con cui si è rifatto vivo anche l’ex presidente americano Joe Biden, che a sua volta ha scelto proprio questo momento per sferrare il primo attacco a Trump. Non sul tema dell’università ma su quello – decisamente più popolare – dei tagli al sistema di previdenza sociale. “In meno di 100 giorni, questa amministrazione ha provocato così tanti danni e devastazione, è sconvolgente che sia successo così rapidamente”, ha detto Biden intervenendo a una conferenza a Chicago sulla disabilità, affermando che “l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un governo che sia deliberatamente crudele”. “La previdenza sociale merita di essere protetta per il bene dell’intera nazione […]. Si tratta di onorare un legame fondamentale di fiducia tra lo Stato e il popolo”. “Perché vogliono svuotarla? Per offrire enormi riduzioni fiscali ai miliardari”. Immediata è arrivata, sempre su Truth, la risposta di The Donald a “Sleepy Joe Biden”, “il peggior presidente nella storia degli Stati Uniti” (tutto in maiuscolo, ovviamente). Il post è tutto centrato sull’invasione permessa da Biden di “milioni e milioni di criminali […] nel nostro Paese”. “Mi dispiace – è la conclusione – ma è il mio lavoro far uscire questi assassini e delinquenti da qui. È per questo che sono stato eletto. MAGA!”. A neanche tre mesi dall’insediamento, dopo l’apertura del fronte universitario, il clima è già da campagna elettorale.
di Giulia Belardelli su HuffPost
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