Anno: XXV - Numero 214    
Giovedì 21 Novembre 2024 ore 13:20
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Cinquemilasettecentotre sentenze scritte e depositate ma ferme in attesa di pubblicazione

Dice tanto, questo numero, a proposito di come funziona, in Italia, la giustizia civile.

Cinquemilasettecentotre sentenze scritte e depositate ma ferme in attesa di pubblicazione

E degli ostacoli contro cui rischiano di andare a sbattere tutti i propositi di riforma che dovrebbero permetterci di non sprecare i denari europei del Piano di ripresa e resilienza. Il numero, 5.703, compare in fondo alla tabella relativa ai procedimenti pendenti presso la Suprema Corte elaborata dall’ufficio statistico della Cassazione. Dove c’è scritto che al 31 agosto scorso i procedimenti civili ancora pendenti nel terzo e ultimo grado di giudizio erano 118.761. Cifra decisamente esigua, in confronto al gigantesco arretrato di tutti i processi in materia civile, che prima della pandemia superava 3 milioni e 300 mila cause. Di cui più del 30 per cento nel cassetto da almeno tre anni. Con casi ben oltre il limite del paradosso, se al Tribunale civile di Roma ci sono procedimenti aperti da decenni senza esito. Ci sarebbe addirittura un contenzioso risalente al 1959, tre anni prima che a Berlino venisse tirato su il Muro.

Ma qui il problema, sia pure in qualche modo collegato alla storia dell’arretrato, è di altro genere. Perché di quei 118.761 procedimenti, quelli ancora da trattare sono 107.517. E i rimanenti 11.244? Sono già conclusi ma aspettano di venire pubblicati. Ce ne sono 2.477 “in attesa di minuta”. E poi altri 3.064 “con minuta consegnata”. Che cosa significa? Semplice: che la sentenza è scritta, ed è pronta per la revisione conclusiva prima del deposito ufficiale. Infine, ecco i famosi 5.703: quelli che non solo hanno la “minuta” scritta e consegnata, ma che quella “minuta” è stata controllata, e hanno già in calce pure la necessaria firma del presidente. Però restano anche queste in attesa di pubblicazione. E qui comincia una nuova partita. La sentenza dovrebbe infatti essere tecnicamente pubblica nel momento in cui viene depositata nella cancelleria. Ma il condizionale è d’obbligo, perché dopo il deposito c’è un passaggio ulteriore, ossia quello della pubblicazione. Un passaggio in teoria automatico, ma siccome anche la burocrazia richiede il suo pedaggio, non è affatto automatico. La pubblicazione di una sentenza già scritta, firmata e depositata non rappresenta intuitivamente un compito di eccessiva responsabilità, né di impegno particolarmente gravoso. Nel corso degli anni è stata invece caricata di significato dalle burocrazie ministeriali, al punto che si è deciso di affidare l’espletamento di questa mansione non a un dipendente qualsiasi, bensì a una figura amministrativa con un ruolo specifico, quello di “cancelliere esperto”. Cioè una figura gerarchicamente superiore al normale cancelliere, per ragioni che hanno a che fare esclusivamente con la necessità di avere ulteriori stratificazioni burocratiche. Il risultato è la formazione di un singolare trenino di sentenze già depositate, e quindi pubbliche ma non ancora pubbliche del tutto perché manca un timbro, che restano nel limbo alimentando così anche in modo incomprensibile le statistiche dell’arretrato giudiziario. Sorprendente.

Ancor più sorprendente, tuttavia, è il fatto che essendo perfettamente a conoscenza di questa assurdità, nessuno al ministero della Giustizia per anni si sia posto il problema di mettervi fine con un semplice atto amministrativo, non una grande riforma. Una circolare di poche righe basterebbe a eliminare del 5 per cento circa l’arretrato finto della Cassazione civile.

Questa vicenda apparentemente marginale nel contesto dei gravi e annosi problemi della giustizia civile rende però evidente quanto il sistema sia pesantemente condizionato da dettagli burocratici spesso inutili e incomprensibili che non c’entrano nulla con l’esercizio della funzione giudiziaria. Si tratta della sindrome del “carrello”, per usare un termine che abbiamo sentito citare a fine settembre a Insolvenzfest, la manifestazione annuale che si tiene a Bologna per ragionare sulle crisi d’impresa e i problemi della giustizia, dal procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Il carrello è lo strumento che serve a trasportare i fascicoli processuali da un posto all’altro del Tribunale. E il suo viaggio, spesso, ha una durata infinita. Al Tribunale penale di Roma, ad esempio, per coprire la distanza che lo separa dalla Corte d’Appello, quantificabile in una cinquantina di metri, impiega anche nove mesi. Alla impressionante velocità di sette millimetri l’ora. Da che cosa dipende? Dai meccanismi della burocrazia interna, che riguardano l’intero sistema: dai bizantinismi procedurali alle carenze di personale amministrativo. Mancano anche coloro che dovrebbero spingerlo quel carrello, nonostante le statistiche dicano che la spesa del nostro Paese per i Tribunali sarebbe addirittura in linea con la media europea.

Il carrello si presenta forse come uno dei problemi più rilevanti, adesso che per tagliare i tempi dei processi e l’enorme arretrato si è scelta la strada dell’improcedibilità in appello dopo due anni per la stragrande maggioranza dei reati. Perché quei cinquanta metri percorsi all’andatura di sette millimetri l’ora rischiano di far evaporare tanti giudizi di secondo grado che non si riesce neppure a immaginare, mangiandosi già quasi metà del tempo a disposizione per il processo d’appello. E non è assurdo immaginare che la conseguenza possa essere quella di far accelerare l’evaporazione di molti procedimenti per reati ambientali, di bancarotta e contro la pubblica amministrazione, che in questo Paese avremmo invece necessità di colpire con prontezza e severità. La dimensione del fenomeno, che si riflette in maniera pesante anche su piaghe endemiche italiane, come la massiccia evasione fiscale e contributiva, è anch’essa in numeri sconcertanti. Basta dire che tutte le procedure fallimentari in corso cumulano debiti già certificati verso l’Erario, sia riguardo a imposte non pagate che a contributi previdenziali non versati, per una somma di poco inferiore ai 162 miliardi di euro. Il doppio rispetto ai debiti dovuti ai fornitori delle imprese fallite: non tutte, ovviamente, a causa di crisi aziendali cristalline. Il bello è che di una tale cifra si riesce a recuperare appena l’1,64 per cento: vale a dire poco più di 2 miliardi e mezzo su 162. Il resto l’hanno già tristemente pagato i contribuenti.

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