Anno: XXV - Numero 214    
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Finisce sotto accusa la gestione Bonafede.

Ecco tutte le ombre dell'ex Guardasigilli che ha creato Conte L' hanno chiamata «macelleria» di Santa Maria Capua Vetere. In verità era solo una delle tante succursali della «macelleria carceraria» che dal marzo 2020 ha operato a pieno regime da Melfi ad Ascoli Piceno, da Rieti a Modena e Bologna.

Finisce sotto accusa la gestione Bonafede.

Godendo dei silenzi e delle coperture di chi, al governo, doveva vigilare. Per questo ai magistrati che inseguono giustizia, altrettanto sommaria, esponendo gli agenti indagati non solo alla gogna mediatica, ma anche alle ritorsioni malavitose, è richiesto un passo in più. Un passo indispensabile per individuare non solo i manganelli simbolo delle violenze, ma anche le poltrone di chi avvallò l’incivile regolamento di conti. Magari magari partendo dal grillino Alfonso Bonafede che allora occupava la carica di Ministro di Giustizia e oggi liquida come «totalmente false» le ricostruzioni sul suo ruolo. L’ex ministro si guarda bene, però, dallo spiegare perché non pretese né inchieste, né accertamenti. E perché, il 16 ottobre 2020, dopo un’interrogazione del deputato Riccardo Magi, spedì in parlamento il sottosegretario Vittorio Ferraresi, Cinquestelle come lui, per fargli riferire che «quella di Santa Maria è stata una doverosa operazione di ripristino della legalità».

Di fronte ad affermazioni perlomeno sconcertanti sarebbe incoraggiante veder la magistratura esibire lo stesso zelo dimostrato quando volle accertare le responsabilità del ministro Matteo Salvini indagato per aver bloccato in mare dei migranti senza documenti. Anche perché – nonostante l’ex Guardasigilli liquidi come «totalmente false» le ricostruzioni sulle sue possibili responsabilità – è evidente a tutti che Francesco Basentini, l’uomo da lui scelto come capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), non solo sapeva quanto avveniva nelle carceri, ma l’approvava e l’incoraggiava. E lo prova l’eloquente «hai fatto benissimo» con cui elogiò Antonio Fullone, il provveditore del Dap in Campania che lo informava di avere disposto la «perquisizione straordinaria» del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Far luce sulle responsabilità di un ministro che copriva o, peggio, ignorava quanto avveniva intorno a lui è indispensabile. E non solo per far giustizia, ma anche per affrancare l’immagine dell’Italia, e delle sue divise, da quella di un Movimento 5 Stelle che ha precipitato il Paese in una delle parentesi più buie della sua storia.

I silenzi, le ambiguità e le evanescenze di Bonafede sono in fondo solo l’ennesima conseguenza dell’inettitudine di una classe politica di cui il ministro è stato bandiera e colonna. Non a caso è lui, nel 2018, a proporre come presidente del Consiglio dell’esecutivo con la Lega il suo ex docente di Diritto costituzionale Giuseppe Conte. Insomma è solo grazie al ex Deejay Fofò, transitato dalle discoteche di Mazara del Vallo agli scranni del Parlamento, se un professore universitario, sconosciuto ai più, si trasforma in presunto «avvocato degli italiani» guidando, uno dopo l’altro, due esecutivi opposti ed antitetici. Un premier che da allora in poi non perde l’occasione di coprire l’ex allievo artefice di una riforma della prescrizione definita «mostruosa» dal magistrato Carlo Nordio, e tacciata di «populismo penale» dal presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. Non a caso sarà proprio lo scontro su quella riforma e sul ruolo di Bonafede a innescare lo scontro con Matteo Renzi costato la poltrona a Conte. Ma nella buia era grillina Bonafede è anche il braccio destro e il fedele alleato di Di Maio. Grazie al doppio binario che lo lega sia al premier, sia al primo, vero leader politico del Movimento si guadagna la carica di capodelegazione dei 5 Stelle nell’esecutivo giallorosso. Un ruolo che finisce con l’amplificare il silenzio e l’evasivo disinteresse con cui – dal marzo 2020 fino alla caduta del governo – affronta la questione dei raid nelle carceri. Ma ai sospetti l’ex ministro è abituato.

Quand’era in carica qualcuno tentò di dipingerlo, senza alcuna prova, come l’oscuro regista capace di rallentare e addomesticare l’inchiesta su Ciro Grillo, il figlio del fondatore del movimento accusato di violenza sessuale. Bazzecole rispetto alle ombre e alle accuse che l’ex ministro dovrà diradare se il sangue della macelleria carceraria macchierà anche lui.

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