Anno: XXV - Numero 214    
Giovedì 21 Novembre 2024 ore 13:20
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Il lungo anno del tecnico e i partiti

Il lutto non elaborato per la mancata apoteosi al Quirinale, la sfuriata con Mattarella sembrano far parte di un epilogo personale, di una forse troppo tardiva, ma conclamata illuminazione che ha portato il premier finalmente a comprendere il cul de sac nel quale è finito

Il lungo anno del tecnico e i partiti

C’eravamo tanto odiati, per un anno e forse più. C’eravamo poi lasciati, non ricordo come fu. Piove, eccome, su Palazzo Chigi e i Colli della politica. La sfuriata di ieri sera del premier Draghi al Quirinale non lascia presagire cambiamenti del meteo a breve, anzi. Arrivano al pettine i nodi irrisolti di un rapporto arduo, il primo dei quali quello dell’incomunicabilità tra politici e “tecnici”, che fin dai primordi aveva mostrato la sua insostenibile pesantezza.

Ricordate il marzo scorso? Era su per giù la festa del papà, il governo Draghi in piena “honeymoon” con gli italiani che lo reclamavano come “salvatore” da ogni male, pandemia ed emergenza economica, e il consiglio dei ministri aveva appena approvato il cd. decreto “Sostegni”. Alla prima conferenza stampa, il premier aveva subito marcato le differenze con il “vecchio corso”, ovvero i provvedimenti del suo predecessore Conte, leader in pectore del partito di maggioranza relativa in Parlamento e ancora frastornato dalla precipitosa caduta. Non il massimo della diplomazia. Era toccato al segretario del Pd, Enrico Letta, interpretare il disagio della politica e la parte dell’imbarazzato guastafeste, tanto da denunciare un “governo ostaggio di Salvini”, nonostante l’intoccabile figura del premier (“Bene Draghi, male, molto male che un segretario di partito tenga in ostaggio per un pomeriggio il Cdm, senza peraltro risultati. Pessimo inizio Salvini”). Così, mentre il leader leghista sembrava colonna portante della coalizione, Letta cercava disperatamente ruolo e visibilità per il suo Pd in crisi di identità dopo l’abbandono di Zingaretti. Arrivò, di lì a poco, a proporre non solo lo “ius soli” per far inviperire il Matteo leghista, ma addirittura la cd. “patrimonialina”, un aumento delle imposte sull’eredità giustificato dalla finalità di far giungere ai diciottenni una piccola “dote” da spendere per gli studi o gli inizi di carriera. Non fece in tempo a insorgere il centrodestra contro il redivivo “partito delle tasse”, che Draghi aveva già calato la pietra tombale su entrambe le proposte: la prima neppure ricevibile in quanto non all’ordine del giorno, la seconda perché “è il momento di dare soldi ai cittadini non di prenderli”. Gancio destro seguito dall’uppercut, un uno-due dal quale Letta junior imparerà il primo insegnamento della convivenza felice con l’ex presidente Bce: mai esprimere una proposta prima di concordarla con lui, il Conducator.

Risalito dagli inferi, arrivò allora il momento dell’ex premier Conte di provare a misurarsi con l’asso calato da Francoforte, subito dopo esser stato faticosamente messo in sella al ronzino Cinquestelle. Dopo una serie di fastidiosi assalti a vuoto, l’avvocato del popolo riuscì finalmente a ottenere un appuntamento a Palazzo Chigi, accompagnato dal fido Sancho Casalino. Qualche mese dopo si seppe com’era andato davvero l’incontro, ufficialmente fatto passare per colloquio “franco e cordiale” di una cinquantina di minuti. Un quarto d’ora di gelido contatto (a distanza), concluso dal frettoloso congedarsi del premier: “Ora mi scuserà, ho degli impegni”. Come rivelarono retroscena mai smentiti, la tramortita coppia Conte-Casalino chiese allora di poter “usare” una saletta di Palazzo Chigi per delle telefonate urgentissime, improrogabili. Si sa, il telefono allunga la vita e quella mezz’ora abbondante di interurbane salvarono la faccia. Fu una ferita mai sanata, forse ancora più dolorosa del defenestramento di Rocco (e dei suoi fratelli). Arriva l’estate, e in questa giostra di tentativi di abboccamento della politica con il Supertecnico finisce il leghista Salvini, mai domo nel tentare di screditare uno dei punti deboli (ma in realtà solidissimo) della compagine di Draghi: la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Si trattò di un’autentica e rovinosa battaglia contro i mulini al vento, con l’aggiunta di uno stillicidio di scaramucce critiche – sempre respinte al mittente – su campagna vaccinale e green pass. Salvini giunse persino a “sconfessare” il capo della delegazione leghista, Giancarlo Giorgetti, pur di avere la meglio. La pretesa di esser ricevuto ogni settimana a Palazzo Chigi per “dettare la linea” si tramutò in un catastrofico crollo della “Maginot” leghista, forse l’inizio della parabola discendente del “capitano”. Come si dice a Roma, Draghi “non se lo filò de pezza”. Sulla Lamorgese addirittura sprezzante: “Se la ministra lo ritiene utile, si possono incontrare”, disse in una conferenza stampa.

Ora, se è vero che la politica è scienza logico-deduttiva, “arte del possibile” e “perenne mediazione”, pur tuttavia l’elemento umano mantiene una sua pervicace rilevanza. Fu così che, mentre tutti gli alleati della “non-coalizione” ci avevano provato ed erano stati umiliati legandosela al dito, giunse la “seconda fase”, quella in cui il premier Draghi immaginò la conclusione del suo tragitto con l’agognato trasloco al Quirinale. Se vogliamo, la premessa e promessa capitale da parte di Mattarella per vederlo impegnato a Palazzo Chigi nel ruolo di “garante dell’Italia presso i circoli finanziari d’Europa”. Per gli antichi greci nulla più del peccato di ubris, oltracotanza, era inviso agli dei. E durante tutto il suo anno vissuto sfuggendo ai diktat dei partiti, Draghi non ha fatto altro, meritandosi stima e fiducia – per la verità – dei molti italiani che nei partiti non ci si riconoscono più. Andare a cercare mediazioni per la salita al Colle è stata, perciò, più una nemesi, una spinosa via Crucis che il coronamento del (buon) lavoro svolto. La caccia all’aquila di Palazzo Chigi si è tramutata, nei giorni dei Grandi Elettori, in uno sgangherato, osceno, anzi sboccato tiro al piccione. Ognuno dei protagonisti di questa storia appare oggi come congiurato e pugnalatore di un Cesare osannato per mesi soltanto per paura, pavidità, convenienza. Il generale che peccò ritenendosi un acclamato dittatore a tempo non ha compreso, per tempo, di essere invece solo un mesto specchietto per le allodole della politica, un professionista a contratto (e con il tempo contato).

Il lutto non elaborato per la mancata apoteosi al Quirinale, la sfuriata di ieri sera a Mattarella che evoca un “io non ci sto” di scalfariana memoria, sembrano perciò far parte di un epilogo personale, di una forse troppo tardiva ma conclamata “illuminazione” che ha portato il premier finalmente a comprendere il cul de sac nel quale è finito. “Con questa maggioranza non posso andare avanti” sarà perciò – non si sa ancora per quanti mesi – il grido strozzato e sgomento di chi certo è capace di trovarsi un altro posto di lavoro in dieci minuti, ma dovendo lasciare sul tavolo buona parte di quella posta accumulata con dovizia in una prestigiosa carriera di “tecnico” della politica economica ai massimi livelli, lanciato da Gianni De Michelis e incoronato al top da Angela Merkel.

È sicuramente prematuro giudicare quanto durerà uno stillicidio del genere, se il piano inclinato potrà condurre persino a un anticipo elettorale in autunno e se davvero la stagione draghiana sia giunta al drammatico epilogo. Di sicuro la campagna elettorale però già costituisce il principale richiamo alla foresta per tutti i partiti, su cui influirà molto, tra un paio di mesi, anche voto sui referendum e le amministrative. Il premier, come si è visto, non è il mediatore più adatto nei confronti di questi partiti e l’attuale, ridotta capacità di spesa del governo, assieme al precipitare della crisi energetica, sono tutti fattori che convergono verso una prossima finanziaria del tutto diversa da quella che Draghi e gli italiani avevano immaginato. Sparagnina e per nulla “generosa”: per nostra disdetta, ancora vacche magre e non grasse. E sempre che a presentarla, dopo l’estate, tocchi ancora a lui, il nostro parafulmine verso la Ue e i suoi insaziabili falchi del Nord Europa.

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