La resa di Zelensky. Inventata dalla stampa italiana
Quasi tutti i giornali hanno ripreso un’intervista del presidente ucraino a Le Parisien riportando quello che non c’era: l’ammissione della sconfitta. Tic, spettacolarizzazione, filo putinismo, antioccidentalismo: tutti i perché di una debacle.
Ieri è andata in scena, attraverso le prime pagine di molti quotidiani nazionali, le agenzie di stampe e via via l’universo del web una realtà alternativa che puntualmente prende forma ogni qual volta gli avvenimenti fanno volgere l’attenzione verso l’Ucraina aggredita. Non parliamo dei bombardamenti sulle città, dei crimini contro soldati, civili, bambini, sul campo e nei territori occupati, ché quelli interessano ormai poco, bensì di qualche parola detta da qualcuno dei protagonisti del conflitto, alla quale aggrapparsi per intessere la story del giorno, come utenti qualsiasi dei social media alla ricerca di attenzione.
L’HuffPost ha avuto il grande merito di fare il proprio mestiere, prontamente illustrando con ampi stralci le parole del presidente ucraino Volodymyr Zelensky raccolte dal quotidiano francese Le Parisien. Parole che gran parte dei media italiani hanno, invece, completamento distorto, facendo passare il riconoscimento dell’attuale impossibilità di riconquistare militarmente la Crimea e il Donbas, e il richiamo alla necessità di pressioni diplomatiche degli alleati occidentali, come una “resa”, una “svolta”, un’“apertura”, l’”ammissione della sconfitta” e via creando più o meno fantasiosamente. E poco importa che la lettura dell’articolo del Parisien rendesse chiaro che nulla di tutto ciò era in discussione, che quanto in questo periodo sostenuto da Zelensky fosse in palese contraddizione con quella interpretazione, che la sua richiesta di nuovi e più importanti aiuti prosegua, insieme al rimprovero all’Occidente di non fare abbastanza. Anzi, si direbbe che non importi nulla. Nemmeno importa che questa lettura ‘creativa’ sia stata esclusivamente italiana.
Ma perché ciò è accaduto? Le ragioni sono più d’una. Innanzitutto, dobbiamo rilevare che tra la necessità di fare della notizia una ‘storia’ e l’attendibilità della notizia il nostro giornalismo troppo spesso risulta squilibrato a favore della prima. La dimensione ‘commerciale’ della logica mediatica sembra troppo spesso avere la meglio. E allora quando si può sfruttare l’“evento” che pare cambiare il corso delle cose e così attrarre i lettori – come ci ha insegnato Umberto Eco – ci si butta su quell’evento, o pseudo-evento, senza farsi troppe domande. Un problema di professionalità e deontologia sulla quale protagonisti e operatori del sistema mediatico dovrebbero interrogarsi.
Ma accanto a ciò c’è anche altro, legato allo specifico tema. Tutta la discussione pubblica sul conflitto apertosi nel febbraio 2022 con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin in Italia è viziato da una pluralità di fattori, anche molto diversi, che convergono nell’alterare la percezione della realtà di quella guerra. Innanzitutto, vi è stata la spettacolarizzazione che ha sempre accompagnato la discussione televisiva, in primis nei talk show, sul tema. Una spettacolarizzazione messa in scena attraverso la creazione di personaggi bizzarri capaci delle affermazioni più assurde ed eticamente aberranti e l’attribuzione di autorevolezza a sedicenti esperti aventi il merito soprattutto di avere alle spalle forti reti “amichettistiche”, a studiosi meritevoli in altri campi, ma ignoranti nel campo specifico e guidati solo dalle loro idiosincrasie, ideologismi o narcisismi, ad altre, varie, figure ricercate solo per creare scontro e tensione.
La stampa non è immune da questa degenerazione, tanto meno la radio, e così il circo si è riprodotto su altri media mainstream, per alimentare poi, con una falsata autorevolezza, i social media. Questi meccanismi precedono naturalmente lo scoppio del conflitto in Ucraina, ma la radicalità della guerra, una guerra a noi vicina, ha costituito l’occasione – ghiotta per direttori, giornalisti, conduttori – per esasperarli e massimizzare l’obiettivo dell’“attenzione”. Qualcosa di simile era accaduto con la pandemia, anche se in quel caso il fenomeno era stato più contenuto e molti operatori dell’informazione avevano mantenuto la barra dritta. Ma le conseguenze della malattia da Covid-19 erano immediatamente per noi percepibili. La vita e la libertà degli ucraini, così come il pericolo dell’imperialismo russo per l’Europa delle democrazie, devono essere apparse, tutto sommato, questioni non abbastanza vicine e immediate e per questo sacrificabili, come tema al quale sensibilizzare, agli imperativi dell’audience.
Accanto a questo fattore “mediatico” ve n’è però uno anche “politico” (anche se le due dimensioni si “tengono”). Interessi economici, lunghe frequentazioni accademiche, collateralismi editoriali, collateralismi politici, aperture istituzionali aventi come referenti il mondo russo, un attivo mondo russo guidato dal Cremlino interessato a penetrare il ventre molle dell’Italia, negli anni ha creato un humus favorevole ad accogliere le menzogne e le manipolazioni della Russia putiniana, il suo castello di verità alternative. Che, infatti, abbiamo visto diffondersi alla velocità della luce non appena l’invasione è cominciata. Una diffusione che ha trovato veicoli nelle messe in scena mediatiche, ma anche in luoghi di ‘cultura’ da anni penetrati da istituzioni di propaganda russa, così come, e con particolare pervasività, in alcune testate, anche molto diverse tra loro per posizionamento ideologico, che per un motivo o per l’altro hanno deciso di dare fiato alle narrazioni del Cremlino, in modo più o meno velato, talvolta apertamente. Non dimentichiamo inoltre come tale conflitto, implicando una difesa non solo di un Paese, ma della realtà e dell’idea della democrazia in Occidente, si sia prestato e si presti al rigurgito arrogante dei vari sentimenti antioccidentali e delle simpatie per le peggiori autocrazie ostili all’Occidente, molto radicati in Italia tanto tra prestigiosi intellettuali, noti giornalisti e figure pubbliche varie quanto tra la gente comune. Non a caso il nostro Paese è ventre molle della propaganda russa: un po’ Franza o Spagna, un po’ l’antico terzomondismo che non muore mai.
Questi fattori tutti insieme hanno trasformato il dibattito pubblico italiano in un laboratorio della post-verità e la sua opinione pubblica in uno spazio per creduloni incattiviti. Sulla guerra scatenata da Putin, dunque, ormai tutto si può dire, anche che è colpa del cocainomane e nazista Zelensky. E così, anche nel circuito mainstream, in uno spazio pubblico dove la verità ormai non vale più nulla, e ciò che conta è la sollecitazione degli umori e delle emozioni, ci si può prendere la libertà di suggerire con titoli sparati in prima pagina che forse ora la pace è vicina perché quel testardo di Zelensky ha finalmente capito che contro la potenza russa può ben poco. È uno storytelling che funziona mediaticamente e trova accoglienza in una cultura politica irrimediabilmente malata. Uno storytelling prodotto infischiandosene delle conseguenze.
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