Come Imane Khelif, ma a Berlino 1936
Il libro di Michael Waters racconta la storia della centometrista statunitense Helen Stephens, vincitrice di due medaglie d’oro.
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“Questi atleti ingannano deliberatamente e andrebbero banditi dalle Olimpiadi. Gareggiando negli sport femminili, essi fanno ingiustamente uso della loro superiorità fisica, come uomini, contro donne fragili”. Sono parole di Donald Trump, di Nigel Farage, di un funzionario putiniano, o di uno dei tanti (e delle tante) che dalla destra italiana si sono scagliati contro la pugile Imane Khelif? Niente affatto, sono affermazioni di quasi novant’anni fa, di Wilhelm Knoll, medico dello sport tedesco, presidente della Federazione Internazionale di Atletica, soprattutto membro autorevole del Partito national-socialista. Del resto, il quotidiano che pubblicò questa invettiva si chiamava “Der Führer”.
Si era alla vigilia delle Olimpiadi di Berlino del 1936, che Adolf Hitler voleva trasformare in una parata della potenza della “nuova Germania ariana”. E quello che preoccupava più il Führer e i funzionari nazisti, era che l’epopea potesse essere guastata da tre tipologie di atleti: quelli ebrei, quelli neri e gli “ermafroditi”, come venivano chiamati spregiativamente coloro che, da un genere, erano passati all’altro.
Se la transizione di genere è sempre stata presente nella storia dell’umanità, come numerosi studi storici hanno mostrato, fu solo a partire dall’Ottocento, con la nascita della idea borghese di “rispettabilità”, e quelle contemporanee dell’antisemitismo e del razzismo, che divenne uno scandalo. E uno scandalo soprattutto per le ideologie razziste, per i movimenti nazionalisti e, infine per i nazisti, che diffondevano il mito del corpo puro, perfetto, ariano, bianco di carnagione e biondo di crine, incontaminato in quanto riflesso della “salute” della nazione e della razza. Ebrei, neri e trans costituivano il principale pericolo per questo totalitarismo corporale, fondato su una forma di perversione e, come già mostrarono gli studi degli psicanalisti di allora, caratterizzato da omoerotismo e omosessualità rimossa, come nelle SS, e sul disprezzo della donna, relegata al solo ruolo di fornace sforna figli. Per questo, i funzionari nazisti cercarono di fare di tutto per impedire a ebrei, neri e trans, di partecipare alle Olimpiadi. Riuscirono ovviamente con quelli tedeschi, (anche perché molti ebrei erano già scappati, mentre omosessuali e trans già stavano in galera) ma non con quelli delle altre nazioni, per via della minaccia di un boicottaggio internazionale delle Olimpiadi, che Hitler non poteva permettersi.
Il libro di Michael Waters, The Other Olympians: A True Story of Gender, Fascism and the Making of Modern Sport (Farrar, Strauss and Giroud, 27 euro) narra la storia delle vicende degli atleti trans nelle Olimpiadi, in particolare di due figure di importanti olimpionici, Uno, il cecoslovacco Zdeněk Koubek, corridore e saltatore, formalmente nato femmina, ma in un corpo maschile, che vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi femminili di Londra del 1934, poi diventato maschio, con una operazione chirurgica, nel 1936. E il lanciatore di pesi statunitense Mark Weston, anch’egli, tra il 1934 e il 1935, in corso di transizione. I due casi erano diventati così celebri da aver diffuso una pervicace paranoia nei nazisti: oltre al rischio che vincessero atleti ebrei e neri (come poi sarebbe avvenuto), sarebbe stato uno smacco, per Hitler, se a salire sul podio fossero stati pure atleti trans. Tanto più che gli ebrei e i neri, dal punto di vista nazista, erano “visibili”, i trans no, potevano ingannare.
Koubek e Weston non parteciparono alle Olimpiadi di Berlino perché si erano già ritirati, ma il nazismo si scagliò contro un’atleta, tacciata ingiustamente di essere un uomo, la centometrista statunitense Helen Stephens, la cui unica colpa consisteva nel non essere conforme ai canoni estetici dell’epoca e soprattutto a quelli nazisti. La stampa nazista la prese di mira, cercando di svelare il suo vero genere, in base ad informazioni false e, ad esempio, scrivendo che “vi era sempre del panico nei dormitori femminili quando la voce mascolina di Stephens si diffonde nei corridoi”. Subito intervenne il già citato Knoll, chiedendo che tutte le atlete e non solo quelle tedesche, fossero “ispezionate” da un medico (ovviamente tedesco e maschio) prima di entrare in gara.
La squadra statunitense mandò al diavolo il medico nazista, anche se non mancarono pressioni, dato che, nei vertici della Federazione sportiva americana, molti simpatizzavano per Hitler. C’è anche da dire che l’indegna campagna di stampa contro l’atleta “accusata” di essere maschio, vide la partecipazione pure di giornali dell’estrema destra francese e polacca – non sappiamo se la stampa fascista si aggregò, probabilmente no, perché, nella Italia bigotta e clerico-fascista, non si doveva mai parlare pubblicamente di sesso, e a maggior ragione di quello considerato, dai cattolici, contro natura.
Nonostante la tremenda pressione psicologica, Helen vinse due medaglie d’oro a Berlino: assieme ad atleti ed atlete neri ed ebrei. Un‘onta per Hitler che però, almeno, diversamente dai politici attuali, non intervenne nella vicenda. Il saggio di Waters è uscito il 6 giugno, dunque poco prima del caso Imane Khalif. L’autore sarà stato soddisfatto nel vedere replicate, nel 2024, le vicende da lui raccontate nel libro. Noi un po’ meno: la storia non insegna proprio nulla, tanto che gli stessi fenomeni possono ritornare, anche con il medesimo linguaggio.
Di Marco Gervasoni per Uffpost
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