Anno: XXV - Numero 214    
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Il dimenticato orgoglio dell’unità nazionale

26 ottobre 1954, Trieste torna all’Italia.

Il dimenticato orgoglio dell’unità nazionale

Il 26 ottobre del 1954 avvenne il miracolo: Trieste tornava all’Italia e gli italiani accantonarono le loro profonde divisioni politiche ed ideologiche per unirsi ad alzare il tricolore in tutte le piazze. Manifestarono, quel giorno, l’orgoglio della Patria. Per parte di loro quell’orgoglio si confondeva nell’abitudine del pensiero e perciò lo sventolio della Bandiera per Trieste nuovamente redenta, era naturale e schietto. Altri erano lontani da questi “sentimenti” ed anzi li demonizzavano perché guardavano al «Sol dell’avvenir», cantavano Bandiera Rossa, lottavano per il trionfo dell’internazionalismo proletario, vagheggiavano la nostra sottomissione alla dittatura sovietica. Ma uscirono anche loro con il tricolore, spinti da quel subconscio di ascose percezioni così ben evidenziato da Guareschi nel «discorso alle reclute» del Peppone raggiunto dalle note del Piave che proclamava di essere pronto a difendere «i sacri confini della Patria»anche contro i nemici d’oriente, contro la Russia venerata despota del suo PCI.

Ricordo con commozione l’avvenimento. Frequentavo la scuola media dove svolgevano il programma educativo – già ben presente alle elementari – incentrato sui valori Risorgimento, sulla grandezza dell’Italia unita dal sacrificio di tante generazioni. Ed in famiglia c’erano ancora nonno e tre zii (uno mutilato) ai quali chiedevo e richiedevo di narrarmi la loro guerra sul Carso e sul Piave per Trento e Trieste. Di Trieste si era parlato, con rabbia e commozione, l’anno precedente per i moti contro l’occupazione inglese. Per i quali c’erano state le manifestazioni di solidarietà degli studenti più grandi dove mi ero infilato assieme a tanti miei compagni di classe. E l’anno precedente ancora, nel 1952, c’era stato un momento di diffusa commozione quando Nilla Pizzi aveva vinto il Festival di San Remo con il «Vola Colomba» della ragazza che «inginocchiata a San Giusto» pregava per il ritorno dell’Italia. 

Partecipai perciò all’entusiasmo di quel 5 ottobre con la consapevolezza di vivere una grande pagina della nostra storia, un po’ immalinconito perché non mi accompagnavano a Trieste a condividere l’arrivo dei bersaglieri e delle nostre navi al molo Audace. (quanto volte mi avevano narrato del Re Soldato che vi era giunto con la nave dalla quale il molo avrebbe preso nome?).

Poi fu «subito sera».

L’euforia popolare si appannò nei sentimenti e fu disattesa dalle ciniche – più mistificate che necessarie – esigenze della politica. Si dimenticò che in quei giorni c’erano, a Trieste, anche i nostri martiri: quelli gettati nelle foibe dal comunismo titino. Non fu possibile – fu pressoché proibito – parlarne, per decenni: li si doveva relegare nell’oblio, era necessario cancellarli dalla memoria. Perché il comunismo nostrano lo esigeva, ed anche perché i nostri alleati occidentali imponevano l’amicizia con il Maresciallo assassino. Il quale fu allora zelantemente gratificato con la massima onorificenza della Repubblica: e così assolto da tutti i suoi crimini; promosso da signore della barbarie ad eroe della buona Giustizia. E poi, qualche anno dopo, giunse la turpitudine di Osimo: approvato in Parlamento, su richiesta del governo Moro V, dai partiti governativi – che imposero l’appello nominale per timore di “disobbedienze” – unitamente ai comunisti compagni di Tito; con la sola contrarietà, nelle dichiarazioni e nel voto, del MSI-DN e di pochi altri, tra i quali la medaglia d’oro Durand de la Penne del Partito Liberale.

Ancor più.

Vennero del tutto dimenticate l’euforia e l’effimera ritrovata unità nazionale di quel 5 ottobre 1954, quando un’altra generazione di italiani incontrò, e in non piccola parte condivise, la furia secessionista della Padania che, incrostata di ridicola ignoranza, rinnegava la nostra identità nazionale assumendo l’assurda «discendenza nordista dalla civiltà dei Celti». E la proclamava nel folklore di sagre partecipate con l’elmo cornuto e le mutande verdi, tra una salciccia affumicata, la bestemmia del battesimo padano con l’acqua del Piave, il vilipendio sistematico e non represso del Tricolore. Quel Tricolore da ultimo sventolato dalla sinistra contro la destra che in ottemperanza agli impegni di coalizione con gli ex Celti divenuti “sovranisti” (ancora la realpolitik?) ci ha dato l’autonomia differenziata delle Regioni festeggiandola, in Parlamento, con lo sventolio delle bandiere secessioniste.

(da Opinioni Nuove, ottobre 2024)

Sandro Gherro (Professore emerito dell’Università di Padova)

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