Il diritto alla salute e l’accesso alle cure è negato nel Sud Italia.
Bruna Filippone (DifendiAmo l’ospedale di Locri) “Ormai da tanto tempo non ci vengono neanche più garantiti i livelli minimi di assistenza”, tra carenza di personale, macchinari guasti e locali fatiscenti” .
Per potersi sottoporre a un’ecografia all’addome all’ospedale di Mesoraca, in Calabria, bisogna aspettare 155 giorni; 383 invece per effettuarla a Vibo Valentia. Per una risonanza magnetica all’ospedale di Crotone l’attesa è di 203 giorni; per una colonscopia a Vibo, è di 563. Per svolgere dunque test diagnostici fondamentali per individuare eventuali patologie e problemi di salute, inclusa la presenza di masse tumorali, in molte aree della Calabria bisogna aspettare diversi mesi, se non addirittura più di un anno.
“Ormai da tanto tempo non ci vengono neanche più garantiti i livelli minimi di assistenza”, tra carenza di personale, macchinari guasti e locali fatiscenti, ha detto la presidente del comitato DifendiAmo l’ospedale Bruna Filippone a proposito dell’ospedale di Locri, in Calabria. Ma la Calabria non è l’unico esempio di servizio sanitario regionale in crisi, soprattutto al Sud. E se è vero che i lunghi tempi di attesa rappresentano un problema condiviso da diverse regioni d’Italia tanto al Nord quanto al Sud, i servizi sanitari e l’accesso alle cure nel meridione si trovano da tempo in una situazione particolarmente critica.
Il monitoraggio dei livelli essenziali di assistenza (LEA), ovvero le prestazioni e i servizi che il Sistema Sanitario Nazionale deve fornire ai cittadini gratuitamente o dietro pagamento del ticket, ha rilevato non solo una forte differenza tra Nord e Sud, ma anche l’inadempienza delle regioni meridionali nel garantire cure e assistenza adeguate. Tra le regioni che hanno raggiunto i punteggi più alti, infatti, vi sono solo regioni del Nord, due del centro, e nessuna del Sud. Ad oggi, Abruzzo, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia sono anche sottoposte al Piano di rientro, insieme alle regioni commissariate di Calabria e Molise: si tratta di misure di controllo e potenziamento dei servizi di assistenza e risanamento del bilancio che però, come rilevato dalla Fondazione GIMBE, “non hanno permesso di raggiungere” gli obiettivi prefissati.
In molte aree meridionali, la qualità, l’accesso e l’efficienza delle cure così come le risorse risultano carenti e inadeguate. Qui, e in particolare in Calabria, Campania e Sicilia, ad esempio vi è una minore disponibilità di posti letto, così come è più difficile raggiungere servizi di pubblica utilità come pronto soccorso e farmacie. A riscontrare le maggiori difficoltà sono soprattutto le zone periferiche e lontane dai centri urbani. A causa della chiusura e del depotenziamento di ospedali, reparti, consultori e ambulatori, molte aree interne della Calabria ad esempio sono rimaste sprovviste di servizi sanitari essenziali: in un contesto in cui bisogna tenere conto anche del malfunzionamento della viabilità e del sistema dei trasporti, la conseguenza è l’esclusione di chiunque non abbia la possibilità di muoversi autonomamente.
Anche la prevenzione oncologica è particolarmente carente al Sud, dove il tasso di mortalità per tumori maligni risulta più alto che altrove. L’Istituto Superiore di Sanità riporta che lo screening mammografico a scopo preventivo tra le donne tra i 50 e i 69 anni presenta forti differenze regionali: si passa infatti da una copertura dell’80% al Nord al 58% al Sud, con la percentuale più bassa in Calabria al 42,5%. Lo stesso vale per lo screening colorettale tra persone tra i 50 e i 69 anni, per cui si va da una copertura del 12,3% in Puglia e del 18,4% in Calabria al 67% tra i residenti nel Nord Italia. Anche per lo screening per il carcinoma della cervice uterina il Sud presenta dati al di sotto della media nazionale. Come rilevato dall’associazione sullo sviluppo del Mezzogiorno Svimez, “la scarsa adesione al Sud” alle campagne di prevenzione “riflette anche le carenze di offerta”. L’ISTAT ha poi misurato i livelli di soddisfazione e fiducia nei confronti del personale medico e sanitario. Per quanto risulti ancora alta a livello nazionale nonostante il calo rilevato negli ultimi anni, la fiducia che i cittadini meridionali ripongono nei confronti di chi opera in questo settore è al di sotto della media, e raggiunge i livelli più bassi in Calabria, Molise e Sardegna.
I lunghi tempi di attesa, le difficoltà ad accedere alle cure, la carenza di risorse come posti letto e strumenti adeguati e la scarsa fiducia nei confronti dei servizi offerti contribuiscono alla cosiddetta “mobilità sanitaria”, cioè lo spostamento dei cittadini sul territorio nazionale per accedere alle cure di cui hanno bisogno. Diminuita nel 2020 quando erano in atto le misure restrittive per la pandemia, la mobilità sanitaria è tornata ad aumentare già l’anno successivo. Questo fenomeno si distingue in “mobilità attiva”, che consiste nella capacità delle regioni di attirare i pazienti, e “mobilità passiva”, che invece riguarda le regioni da cui i residenti si spostano per farsi curare altrove.
Se la mobilità sanitaria attiva può essere considerata un sintomo positivo dello stato del servizio sanitario regionale, non lo è il suo contrario. Inoltre, se in alcuni casi spostarsi dalla propria residenza per accedere a visite e cure può derivare da una volontà personale, in molti altri è piuttosto una necessità. Barbara, residente a Locri, ha raccontato: “Mio padre è stato ricoverato a Bologna per tre giorni e si è sottoposto a gastroscopia e colonscopia, due esami importanti che qui non avrebbe potuto fare”. Quando il primario del reparto di gastroenterologia dell’ospedale di Locri è andato in pensione a dicembre, infatti, sono stati sospesi tutti gli esami.
Se da un lato sono aumentate anche le richieste di visite ed esami fuori dalla propria regione di residenza, sono soprattutto i pazienti oncologici e chi ha bisogno di interventi ad alta complessità come quelli sulle valvole cardiache che si spostano dal Sud verso il Nord. In Italia, le regioni più attrattive, e cioè dove i cittadini scelgono di farsi curare, sono il Veneto, l’Emilia Romagna e la Lombardia, con una maggiore preferenza per le strutture private accreditate. Le regioni con la più alta mobilità passiva invece sono Campania, Calabria e Sicilia. L’indice di fuga, che rappresenta il numero di prestazioni sanitarie erogate ai cittadini fuori dalla loro regione di residenza, risulta più alto al Sud e nelle regioni più piccole. Se al Nord poi ci si muove soprattutto nelle regioni di vicinanza, per cui si parla soprattutto di mobilità di prossimità, lo stesso non vale per il meridione da cui ci si sposta per andare al centro o al Nord Italia.
Oltre a non avere accesso a servizi essenziali facilmente raggiungibili e vicini a tutte e tutti, la mobilità sanitaria costituisce anche un costo tanto per le regioni quanto per le singole persone. La regione di residenza di un paziente, infatti, rimborsa quella di accoglienza per la prestazione erogata: stando agli ultimi dati disponibili, le regioni con saldo negativo tra debiti e crediti per mobilità sanitaria sono tutte al centro-Sud, per cui quelle da cui i cittadini si muovono per carenza e inefficienza di servizi sono anche quelle con un debito maggiore.
Al tempo stesso, i cittadini che si spostano in un’altra regione per motivi di salute devono affrontare spese spesso sostanziali, tra costi di trasporto, alloggio, permanenza fuori casa e assenza dal lavoro, che ricadono poi anche sulla famiglia e/o gli accompagnatori. “Sono stata fuori per circa una settimana, con tutti i costi che alloggiare e mangiare fuori comporta”, ha raccontato Barbara che ha accompagnato il padre per farsi curare a Bologna. “Non tutti possono permettersi questo tipo di costi” però, spiega Filippone del comitato DifendiAmo l’ospedale di Locri, “e questo vuol dire che alcune persone non possono curarsi. Non possiamo lasciare la gente nella condizione di non potersi curare”.
Le difficoltà ad accedere alle cure per ragioni economiche sono già maggiori al Sud rispetto che al centro o al Nord Italia, e non riguardano soltanto i costi dovuti allo spostamento fuori regione ma anche al pagamento di prestazioni e servizi in sé. Molte più famiglie meridionali infatti vivono in povertà sanitaria, e dunque non possono affrontare determinate spese mediche o si sono impoverite per farlo. Nel contesto attuale di un servizio pubblico che non funziona o non risponde adeguatamente ai bisogni dei cittadini e la sanità a pagamento sta prendendo sempre più spazio, la situazione per molte famiglie non può che peggiorare. Quasi il 35% di chi prova a prenotare una prestazione tramite SSN in Italia infatti si rivolge poi al privato: al Sud questo dato supera il 40%. C’è anche chi rinuncia del tutto a provare a prenotare nel pubblico. E se tra le fasce di popolazione più ricche questa rappresenta perlopiù una scelta personale, non lo è tra quelle con redditi più bassi.
La mancanza di offerta e di cure adeguate è anche dovuta alla carenza di personale. Al Sud mancano medici e infermieri e i medici di famiglia sono spesso costretti a colmare le lacune dei servizi sul territorio e svolgere sia funzioni ordinarie sia d’urgenza al di fuori delle loro possibilità: dati i pensionamenti previsti nei prossimi anni, la situazione potrebbe ancora peggiorare. Nel frattempo ai bandi di concorso per l’assunzione di nuovi medici ospedalieri partecipano in pochissimi, se non nessuno. Al bando indetto nel 2021 dall’ASL di Foggia per specialisti ortopedici, nessun candidato si sarebbe presentato alla prova scritta; una sola candidatura invece è stata presentata per il bando dell’ASL Napoli 1 per medici di emergenza-urgenza. Gli stipendi bassi, il carico di lavoro e i turni estenuanti sarebbero tra le ragioni che spingerebbero gli operatori a non partecipare ai bandi pubblici, in particolare nei reparti di emergenza-urgenza: proprio nel 2022, i medici del pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli di Napoli avevano denunciato il sovraffollamento dell’unità operativa e le condizioni lavorative precarie e pericolose.
Filippone non è stupita dalla scarsa partecipazione ai bandi di concorso: “Un giovane medico ha voglia di imparare e lavorare in un ambiente sereno che garantisca sicurezza” e non di ritrovarsi in “una struttura con carenza di organico e strumentazione”. Per fare fronte alla mancanza di medici, intanto, la Sicilia ha indetto dei bandi “aperti” e cioè senza scadenza rivolti a persone straniere mentre la Regione Calabria ha firmato un accordo con Cuba per l’invio di medici cubani: un’iniziativa che da un lato ha rappresentato un aiuto concreto ai reparti sforniti, ma dall’altro è stata criticata per il suo carattere emergenziale e temporaneo.
Come spiega Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, dopo la pandemia la “carenza quantitativa” si è sommata a “una crisi motivazionale che porta sia a disertare alcune professioni e specialità mediche”, come la carriera infermieristica e i reparti di emergenza e urgenza “sia a lasciare le strutture pubbliche per quelle private, o addirittura per l’estero”, dove vengono proposti stipendi e condizioni lavorative migliori. Per queste ragioni è “inderogabile rilanciare le politiche sul capitale umano in sanità” e “investire sul personale sanitario con risorse vincolate, programmare adeguatamente il fabbisogno di tutti i professionisti sanitari, riformare i processi di formazione, valutazione e valorizzazione delle competenze secondo un approccio multi-professionale”.
Il Servizio Sanitario Nazionale è in grave crisi: le proposte per salvarlo
I fondi stanziati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) in ambito sanitario avrebbero potuto rappresentare una buona occasione per rafforzare il Sistema Sanitario Nazionale, ma la mancanza di un piano per le assunzioni di personale sanitario e le revisioni delle risorse stanziate ne hanno ridimensionato le possibilità: l’ultima riguarda la ristrutturazione e la messa in sicurezza degli ospedali a cui non sarebbero più destinate le risorse del PNRR ma i fondi per l’edilizia sanitaria. I rischi sono quelli di non avere una copertura adeguata per proseguire lavori già iniziati o dover attingere al budget ordinario destinato alla sanità per portarli a termine.
Mentre il governo fa sapere che non ci sono stati tagli alle risorse, questo non è l’unico punto su cui si concentra il recente dibattito sul futuro del sistema sanitario. A gennaio 2024 infatti il Senato ha approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata delle Regioni voluto dal Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie Roberto Calderoli (Lega). Passato all’esame della Camera, il DDL ha lo scopo di definire le procedure con cui le regioni a statuto ordinario potranno chiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, come già previsto dalla riforma del 2001 al Titolo V della Costituzione. Tra le 23 materie per cui si può chiedere una maggiore autonomia ci sono ad esempio l’istruzione, i trasporti, il commercio estero, ma anche la tutela della salute. Sebbene il ministro Calderoli sostenga che questa legge sia stata proposta “per rimediare al disastro del Sud e ai problemi del Nord”, gli esperti in ambito sanitario temono piuttosto il contrario.
Secondo lo studio condotto dalla Fondazione GIMBE, ad esempio, la richiesta di autonomia sulla gestione del personale sanitario, di regolamentazione dell’attività libero-professionale così come delle borse di studio per accedere alle scuole di specializzazione potrebbe generare “una concorrenza tra Regioni con trasferimento di personale dal Sud al Nord” e una “dotazione asimmetrica di specialisti”. Per Cartabellotta, l’autonomia differenziata in ambito sanitario “non solo porterà al collasso la sanità del Mezzogiorno, ma darà anche il colpo di grazia al SSN, causando un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti”. Anche le analisi condotte da Svimez rilevano che con l’autonomia differenziata si rischierebbe di “aumentare la sperequazione finanziaria tra SSR (servizi sanitari regionali) e di ampliare le disuguaglianze interregionali nelle condizioni di accesso al diritto alla salute”. In una relazione della Banca d’Italia, si sottolinea poi come in materie come la sanità la mancanza di coordinamento può rappresentare un problema: “La recente esperienza della pandemia ha ad esempio messo in luce la dimensione sempre più globale della tutela della salute, evidenziando come la rapidità e la qualità dei processi decisionali possano risentire della frammentazione delle competenze su più livelli di governo”.
Immaginare il futuro della sanità nel meridione in un contesto di autonomia differenziata non è semplice: “Le regioni ricche continueranno a essere sempre più ricche, mentre a noi non porterà alcun vantaggio, se non subiremo addirittura ulteriori svantaggi”, sostiene Filippone. Già oggi infatti il diritto alla salute non è ugualmente condiviso su tutto il territorio nazionale. Nascere a Sud infatti non è come nascere in qualunque altro luogo in Italia: così come non si gode degli stessi privilegi economici e sociali, anche i livelli di benessere psicofisico, accesso alle cure e tutela della salute sono differenti. Un esempio di ciò è fornito dai dati sulla speranza di vita: nelle regioni meridionali infatti si vive circa un anno e sette mesi in meno rispetto a chi nasce e vive al Nord. Cartabellotta sostiene che “oggi non siamo più di fronte a un semplice gap Nord-Sud”, ma piuttosto a una “‘frattura strutturale’” che “compromette qualità dei servizi sanitari, equità di accesso, esiti di salute e aspettativa di vita alla nascita”.
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