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La Brexit è stata un disastro. E ora gli inglesi pagano il conto.

Prezzi alle stelle, Pil in calo, disoccupati. E la questione doganale è nel caos. Il "leave" sta mostrando tutti i suoi danni. E in Scozia potrebbero ripartire le spinte per tornare in Europa.

La Brexit è stata un disastro. E ora gli inglesi pagano il conto.

Sadiq Khan, sindaco di Londra, è uno che, si direbbe in Italia, ci mette la faccia. Dal podio del prestigioso Mansion House Dinner 2024, di fronte a mezzo governo conservatore a partire dal premier Rishi Sunak e alle telecamere della Bbc, ha scandito: «La Brexit è un disastro per il Regno Unito. Sono stati persi due milioni di posti di lavoro, la metà dei quali nella finanza e nelle costruzioni (le due fondamenta dell’economia britannica, ndr)». Non è finita: «La Brexit è causa primaria dell’inflazione (arrivata nel 2022 al 12%, due punti in più dell’Europa e tre dell’America, ndr). Quindi della crisi del costo della vita, che non finisce perché l’inflazione sta scendendo più lentamente che altrove». Più chiaro di così non poteva essere. David Cameron, che da premier lanciò il referendum nel giugno 2016 e oggi è ministro degli Esteri, ha lasciato la sala anzitempo. «La Brexit è un fattore negativo sul commercio britannico e contribuisce a una caduta nell’offerta di lavoro, fattori che pesano sulle prospettive di crescita a lungo termine del Regno Unito», sentenzia la Bce in un report.

Londra è l’epicentro della crisi: secondo un rapporto di Cambridge Econometrics, in città sono stati persi 290 mila posti di lavoro, l’economia si è ridotta di 30 miliardi, il londinese medio guadagna 3.400 sterline l’anno in meno. Per l’intero Paese il mancato guadagno è di 2.000 sterline e il costo dello sganciamento dall’Ue è di 140 miliardi. Cruciale è la perdita del mercato europeo: «L’export dei servizi finanziari verso l’Ue – conferma Ben Laidler, “strategist” di eToro, comunità di investitori con 34 milioni di iscritti – è crollato del 15% e il flusso degli investimenti verso il Paese è sceso del 10%. La Gran Bretagna non è più la porta d’ingresso verso l’Europa». Secondo un sondaggio della Camera di Commercio britannica su 1.100 imprese, il 77% di quante commerciano con l’Ue afferma che la Brexit non le ha aiutate a espandere l’attività.

L’Office for Budget Responsibility calcola una caduta del 15% anche del commercio estero in generale, e una riduzione del 4% nella produttività. Prospettive nere anche per il medio termine, malgrado le proteste del governo. «L’aspetto più irritante è che la campagna per il “leave” si basava sulla liberazione da lacci e lacciuoli imposti da Bruxelles e sullo snellimento della burocrazia, ma nulla di tutto questo si è visto, anzi le pastoie se possibile sono peggio di prima», commenta Lorenzo Codogno, ex capo economista del Tesoro e oggi a capo di Lc Macro Advisors a Londra. «La Gran Bretagna è stata sfortunata – ammette Codogno – perché nella cruciale fase riorganizzativa, fra il referendum e l’entrata a regime del “distacco”, è incappata nella pandemia, nell’inflazione con i rialzi dei tassi, nelle guerre. Mantenere la lucidità per un “reset” così importante, non è facile». Puntualizza Brunello Rosa, docente alla London School of Economics: «Pensare di fare da soli è stato un gravissimo errore geopolitico. Il mondo è diviso di nuovo in blocchi. Cambia l’identità rispetto alla guerra fredda: oltre agli Stati Uniti, c’è la Cina e c’è l’Unione europea. Puoi avere tutta la tradizione, la forza intrinseca e il blasone che vuoi, ma anche se ti chiami Regno Unito sei destinato a ricoprire un ruolo secondario». La sindrome dell’isolamento travolge perfino la Bank of England, l’istituzione di Threadneedle Street creata nel 1694 e sovraccarica di citazioni e rispetto: «La banca ha dovuto chiamare – spiega Rosa – un consulente del livello di Ben Bernanke, ex capo della Fed nonché premio Nobel, per rivedere il processo di forecasting, cioè le previsioni dell’inflazione che sono alla base delle decisioni monetarie da quando nel 1992 (anno del famoso attacco speculativo ordito da George Soros che travolse lira e sterlina, ndr) la valuta fluttua liberamente sui mercati e quindi va governata con criteri diversi. Gli stessi peraltro di dollaro ed euro, solo che la sterlina è espressione di un’economia più piccola e isolata».

La sterlina è la prima vittima della Brexit, e ha perso dal referendum più del 14%. «Il “sentiment” degli investitori per la valuta resta negativo», dice Michael Hall di Spectrum Markets. Oltretutto, Bloomberg conferma che «l’economia Ue cresce in media del 2,3% in più di quella britannica, e dal 2016 il Pil dell’Ue è cresciuto del 24% contro il 6% di Londra. Quanto al Pil pro capite, negli ultimi otto anni in Europa è aumentato del 19% in più del Regno Unito». Eppure, sarebbe ancora più destabilizzante un contro-referendum. Il leader laburista Nick Thomas-Symonds, probabile vincitore delle elezioni di fine anno, ha ammonito: «Niente ritorno al mercato unico né all’unione doganale». Intanto, l’immagine iconica del caos è il confine “marittimo” di fronte al porto di Liverpool per l’export manifatturiero verso l’Irlanda: si è creata una dogana galleggiante per evitare di ingolfare quella di Belfast (e non ripetere le code di camion a Dover e Calais) mantenendo fluido il passaggio terrestre verso l’Eire come stabilì l’accordo del “Good Friday” del 1998 che pose fine alla guerra civile, intoccabile ora che il partito Sinn Féin ha vinto le elezioni sia in Irlanda del Nord sia nella Repubblica irlandese. Basterebbe un incidente per riaprire una pagina dolorosissima, o semplicemente per portare alla riunificazione dell’Irlanda sotto l’egida dell’Ue. A quel punto anche in Scozia potrebbe risvegliarsi la pulsione europeista: la Brexit avrebbe avuto l’effetto paradossale di trasformare la Gran Bretagna in Piccola Inghilterra. 

Di Eugenio Occorsio per l’Espresso.

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