La separazione delle carriere in Consiglio dei ministri il 29 maggio.
La riforma può essere bombardata in Parlamento su spinta dei magistrati.
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“Quando verrà presentato il disegno di legge sulla separazione delle carriere? Non ho ancora una data”, aveva detto sabato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per provare a sedare la rivolta dei magistrati riuniti in congresso a Palermo. E la frase del Guardasigilli ha fatto credere a molti, incluso il fiancheggiatore Matteo Renzi (“non faranno mai la riforma, sono solo chiacchiere”), in una brusca frenata del governo sul disegno di legge di revisione costituzionale. Quello che include, oltre alla separazione delle carriere di pm e giudici, il doppio Consiglio superiore della magistratura, concorsi distinti tra magistrati inquirenti e giudicanti, sorteggio secco dei togati da mandare nel Csm. E che fa denunciare ai giudici “la fine dell’indipendenza della magistratura” e il suo assoggettamento al “potere esecutivo”.
Invece Giorgia Meloni e il suo braccio destro Alfredo Mantovano hanno deciso di mantenere il timing annunciato in aprile e che fa la gioia di Antonio Tajani e di Forza Italia che, alle elezioni europee del 9 giugno, potranno mostrare la propria bandierina, al pari di Fratelli d’Italia (il premierato) e della Lega (l’autonomia differenziata). “Il disegno di legge sulla Giustizia”, dicono due fonti di palazzo Chigi vicine alla premier e al potente sottosegretario, “verrà serenamente portato il Consiglio dei ministri il 29 maggio”. Ultima riunione utile prima del voto europeo. Le stesse fonti aggiungono un… ”salvo imprevisti”. Ma poi ribadiscono la determinazione a varare la riforma: “Era ed è scontato che verrà approvata prima delle elezioni europee. La separazione delle carriere è nel programma dell’intera coalizione, di ogni singola forza politica che ne fa parte. E gli elettori, a maggioranza, hanno votato sì”.
C’è chi, come Enrico Costa di Azione, Debora Serracchiani del Pd, Davide Faraone di Iv, scommette sia “solo un aiutino” per Forza Italia. Un modo per rendere la grisaglia di Antonio Tajani più attrattiva agli occhi dei moderati, spingendo gli elettori di centro indecisi a scegliere l’erede di Silvio Berlusconi, piuttosto che Carlo Calenda o Renzi. E se così fosse la mossa di Meloni sarebbe azzeccata: i due ballano pericolosamente sopra o sotto la soglia di sbarramento del 4% e ogni minimo spostamento di voti può risultare decisivo per cancellare o meno la rappresentanza nel Parlamento europeo di Azione e di Iv (entrata negli Stati Uniti d’Europa di Emma Bonino). Epilogo utile alla premier per depotenziare e destabilizzare (qualora ce ne fosse bisogno) il campo largo del centrosinistra.
Ma poi? La storia patria è costellata da disegni di legge sulla Giustizia presentati e poi affondati in Parlamento, sotto il bombardamento dei magistrati. Dunque il via libera alla separazione delle carriere potrebbe essere soltanto un modo per pareggiare i conti nella coalizione: Matteo Salvini ha avuto l’autonomia differenziata, anche se il sì definitivo arriverà dopo il 9 giugno; Meloni ha incassato l’elezione diretta del premier, pure se manca ancora il primo passaggio con il via libera del Senato; e ora viene accontentato Tajani con il primo vagito della riforma della Giustizia tanto cara a Silvio Berlusconi.
Sui passi successivi la nebbia è fitta. Ed è davvero difficile credere che l’approvazione della separazione delle carriere in Parlamento sarà una passeggiata. Anzi. I motivi sono diversi. Il primo: Meloni non è mai stata garantista e, a dispetto delle bordate del ministro Guido Crosetto, non ama andare alla guerra contro i magistrati. Teme la loro reazione. Non a caso fa già sapere che non verrà intaccata “in alcun modo” l’obbligatorietà dell’azione penale. Particolare non da poco.
Il secondo motivo: il Quirinale, come ha dimostrato negli anni Sergio Mattarella, ha sempre lavorato per scongiurare lo scontro tra magistrati e governo e anche in queste ore il presidente consiglia “prudenza”. Tanto più in un momento in cui l’inchiesta di Genova ha scatenato una guerra senza esclusione di colpi tra Salvini, Forza Italia e i magistrati, tanto da far apparire la proposta di dividere le carriere come una feroce ritorsione contro le procure e una mossa a favore dei corrotti. Anche da qui la convinzione che quel “non ho una data” scandito sabato da Nordio fosse una frenata bella e buona.
Il terzo motivo che fa addensare nubi sul percorso parlamentare della separazione delle carriere è più strategico: riguarda il premierato, la “madre di tutte le riforme” per Meloni. Più di un esponente di Fratelli d’Italia, negli ultimi giorni, ha fatto presente alla premier che c’è il “rischio contagio”. C’è il pericolo, in altre parole, che “il no alla riforma della giustizia, possa spingere il no al premierato”. E questo perché entrambe le riforme, non potendo essere approvate in Parlamento da una maggioranza dei due-terzi, dovranno essere sottoposte a referendum confermativo, con un pericoloso effetto traino: “In cabina elettorale chi voterà no alla separazione delle carriere potrebbe essere spinto a votare no anche al premierato. E allora sì che sarebbe un guaio…”, sospira allarmato un alto esponente di FdI, “tanto più che, come hanno dimostrato i referendum del 2022, il tema della Giustizia non appassiona gli elettori: andò a votare appena il 20% degli aventi diritto”.
Francesco Paolo Sisto, viceministro forzista alla Giustizia, già fiuta gli allarmi e le perplessità degli alleati. Così prova ad esorcizzarli con una proposta azzardata: “Non ci sarà un solo referendum, ce ne saranno due in due momenti distinti. Uno sul premierato e l’altro sulla separazione delle carriere, altrimenti la gente non ci capirebbe nulla. Se c’è tempo e se si può? Certo. La scorsa legislatura fu fatto il referendum sul taglio dei parlamentari in tempi brevissimi”. Non la pensa allo stesso modo Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd: “Ogni tornata referendaria costa ai contribuenti circa 400 milioni e sarebbe una follia farne due solo per tranquillizzare Meloni. Noi siamo già pronti a dare battaglia”. Segue consiglio interessato alla premier: “Se fossi in lei non seguirei le orme di Renzi che mise insieme l’abolizione del Cnel e delle Province, che sarebbero sicuramente passate, con la riforma costituzionale. Si sa com’è finita… E sono certa che Meloni non affosserà l’elezione diretta del premier tirandosi dietro la separazione delle carriere di cui non è convinta e non può neppure intestarsela”. La previsione: “Alla fine la premier aprirà un solo fronte, quello del premierato”.
Intanto però la riforma della Giustizia, “salvo improvisti”, il 29 sarà approvata dal governo.
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