L’arte del “Buongoverno”.
Tra classe politica e collaboratori tecnici.
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Uniti da una cultura risorgimentale, per Luigi Tivelli mazziniana, per me cavouriana, ci ritroviamo spesso a dibattere sui problemi dello Stato, che Luigi ha trattato in libri importanti, alcuni scritti in collaborazione con Andrea Monorchio, già Ragioniere Generale dello Stato, soprattutto con riferimento ai principi di legalità e buon andamento della pubblica amministrazione, pilastri dello Stato italiano fin dall’istituzione del Regno, ribaditi e rafforzati dalla Costituzione repubblicana del 1948. Discutendo di “buongoverno”, anche richiamando il monarchico Luigi Einaudi in particolare io, e il repubblicano Giovanni Spadolini Lui, che presiede la Academy intestata allo storico e statista toscano, ci siamo trovati più volte a parlare dell’organizzazione degli uffici che assistono i politici, i ministri ma anche i presidenti delle regioni ed i sindaci.
Un tema affrontato sulla base delle nostre esperienze. Di Consigliere parlamentare e poi di collaboratore di ministri, quale Consigliere giuridico e Capo di gabinetto, per Tivelli, che ha potuto verificare sul campo l’importanza degli uffici di “diretta collaborazione”, come oggi si chiamano gli staff delle autorità politiche nella gestione del potere, e che io ho imparato a conoscere fin da ragazzo, in ragione del ruolo di Capo di gabinetto che mio padre, Italo, ha rivestito con vari Ministri delle finanze. E dunque “figlio d’arte”, come mi indicava spesso il Ministro Giovanni Prandini, del quale sono stato Consigliere giuridico alla marina mercantile ed ai lavori pubblici, un ruolo che ho svolto con vari ministri, anche come Capo di gabinetto del Vicepresidente del Consiglio nel governo Berlusconi-Fini, quello per il quale scrissi alcune riflessioni dal titolo “Un’occasione mancata”, che mi parve il più appropriato per descrivere la sorte di una maggioranza di straordinaria consistenza che fu mandata a casa nelle elezioni legislative del 2006 per un pugno di voti, dopo cinque anni di governo tentennante in ragione dell’estrema modestia di gran parte della classe politica parlamentare. Sicché, alla lettura del mio libro, Francesco Storace mi disse “capisco perché abbiamo perduto per 24 mila voti quando avremmo potuto vincere per due milioni”.
Quella esperienza è stata un passaggio importante nella storia dell’amministrazione italiana perché la classe politica ha dimostrato di essere in molti dei suoi componenti progressivamente sempre più modesta, al punto da circondarsi anche di persone che spesso, pur professionalmente dotate, non hanno avuto la capacità di “tutelare l’immagine pubblica del Ministro”, come ha scritto oggi Tivelli su Il Tempo, ossia di tirare al momento opportuno la giacchetta del politico in procinto di sbagliare. Ciò che avviene soprattutto perché si è presa l’abitudine di mantenere nelle posizioni di Capo di gabinetto, dell’ufficio legislativo e di Consigliere giuridico persone che quella stessa funzione avevano svolto in governi precedenti. È stato questo un argomento sul quale ci siamo confrontati con Luigi Tivelli e anche con Luigi Fiorentino, altro grand commis d’etat, se debba esserci o meno un afflato di natura ideologico-politica tra collaboratori di questo livello e l’autorità politica. Tesi da me sempre sostenuta, non perché il Capo di gabinetto debba essere politicamente qualificato, ma perché deve essere sulla stessa lunghezza d’onda ideale del politico al quale presta la sua collaborazione. Nel senso che sarà tanto più propositivo e capace di coadiuvare efficacemente il suo referente politico se ci sarà condivisione di ideali. Dice Tivelli che questa mia tesi è parzialmente condivisibile, perché poca rilevanza hanno le idee politiche dell’uno e dell’altro. Tesi che io non condivido perché sperimentalmente ho notato come diverso sia l’impegno, routinario o entusiasta, che naturalmente accompagna un collaboratore di un’autorità politica a seconda che vi sia o meno un idem sentire su questioni di carattere strategico e ideologico.
A completare il quadro di riferimento Tivelli sottolinea come la nuova classe politica, soprattutto a destra, sia sempre più chiusa ad apporti esterni in una sorta di mentalità di “clan”, quasi “tribale”, per cui gli incarichi di rilevanza politica, governativa o parlamentare, sono riservati ai compagni di antica data. Così che risulta riservato uno spazio ridotto alla cooptazione di elementi di valore che, invece, in precedenza era sviluppata ancora nel 2001-2006 quando, ad esempio, Gianfranco Fini, alla guida di Alleanza Nazionale, aveva dato spazio ad un liberale come Domenico Fisichella e ad un democristiano come Learco Saporito, designando l’uno alla Vicepresidenza del Senato e l’altro al delicato ruolo di Sottosegretario alla funzione pubblica. Questa apertura, che in parte aveva caratterizzato l’azione di Giorgio Almirante, non c’è più. E si va alla ricerca di personalità che vengono collocate in posizioni di governo o parlamentari al di là della propria personale capacità politica o tecnica solo in ragione di una militanza antica, spesso iniziata nelle organizzazioni giovanili e studentesche. Accade dunque che questo tipo di cooptazione in un ambito ristretto faccia sì che spesso le persone scelte per ricoprire incarichi parlamentari o di governo non siano all’altezza del compito che si assumono, sicché è facile pensare che il partito non ha nessuno più adeguato per ricoprire quel ruolo o del quale è sottovalutata l’importanza politica. Per le segreterie di partito quel che conta è la certezza della fedeltà. Per gli staff, invece, è sufficiente che soggetti incaricati abbiano esperienza tecnica e professionalità, con la conseguenza che i candidati sono considerati intercambiabili e quindi vengono scelti anche fra coloro i quali hanno collaborato con personalità in posizione politica completamente diversa. Il che o nasconde una straordinaria ingenuità o non tiene conto del fatto che, secondo quanto dicevo prima dell’attività di diretta collaborazione, è essenziale la condivisione degli ideali.
Quindi, c’è una sorta di schizofrenia fra la ricerca spasmodica dell’amico, dell’amico dell’amico, del parente di chi ha condiviso esperienze giovanili in movimenti politici o giornalistici, con chiusura nei confronti di chiunque altro non abbia avuto questa specifica esperienza, anche se sicuramente della stessa matrice culturale. Con il risultato che oggi alcuni ministri di destra hanno collaboratori notoriamente di sinistra, legati ai precedenti governi e probabilmente nell’aspettativa di un nuovo cambio di governo.
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