L’Italia si sveglia più a destra
Per la prima volta nella storia la maggioranza degli eurodeputati italiani sarà al di fuori del perimetro Ppe-Pse-liberali-verdi
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L’Italia del 4 marzo non esiste più, sepolta nel più grande spostamento a destra della storia della Repubblica. Il governo, nel suo complesso, resta maggioranza del paese, ma con una inversione assoluta dei rapporti di forza: la Lega, che un anno fa era al 17, raddoppia raggiungendo il 33; i Cinque stelle, che un anno fa erano al 32,4, quasi dimezzano, precipitando sotto la soglia psicologica del 20, sorpassati, per la prima volta da anni dal Pd. Si è aperta una “nuova fase”. Perché mai si era visto in Italia un blocco di estrema destra di queste dimensioni, né ai tempi della Dc, che per oltre cinquant’anni ha arginato ogni forma di “deriva autoritaria”, né ai tempi del berlusconismo, anzi allora si determinò, dopo la vittoria del ’94, un processo di “costituzionalizzazione” degli eredi del Movimento sociale, che nel lavacro purificatore di Fiuggi mondarono i retaggi di un passato ingombrante. Oggi la Lega, il secondo partito europeo per consistenza dopo la Cdu, è il primo partito sovranista d’Occidente e il suo leader ha iniziato la campagna elettorale pubblicando un libro per la casa editrice di Casa Pound e ammiccando all’elettorato neo-fascista. Sommato all’ottimo risultato di Giorgia Meloni (6,5) configura un blocco del 40 per cento, potenzialmente autosufficiente nelle urne. Destra radicale, populista, che non si definisce anti-fascista. Il vecchio centrodestra non c’è più da tempo, ma queste elezioni segnano l’approdo a una nuova configurazione, in cui ciò che resta di Forza Italia è irrilevante col suo 8 per cento, sotto la soglia psicologica del dieci. È cioè riuscita quella strategia del “prosciugamento” che Salvini ha posto in essere nel gioco spregiudicato della doppia maggioranza, al governo con i Cinque Stelle e nelle amministrative con Berlusconi: l’elettorato di centrodestra si è riversato nella Lega. L’Italia cambia colore davvero, scegliete voi se è blu o nero: con la conquista del Piemonte scommette sulla Lega tutto il partito del Pil, nel centro Italia è primo partito: 31 per cento nelle zone rosse, dove il Pd è al 28 e i Cinque stelle precipitano al 16. Questi i numeri di una svolta a destra che i Cinque stelle hanno favorito, non arginato, in un anno di complicità, in cui hanno avallato tutte le bandiere securitarie del leader leghista, tranne poi improvvisare una poco credibile svolta a sinistra fondata sulle chiacchiere, e infatti giudicata poco credibile dagli elettori. È un crollo di partecipazione e di consenso al Sud (già anticipato dalle amministrative in Abruzzo, Basilicata, Sardegna) a determinare la debacle pentastellata: in Sicilia, Sardegna, Campania, regioni che un anno fa tributarono un plebiscito, calano i partecipanti e calano i voti. Debacle resa più amara dopo il varo del reddito di cittadinanza, unico caso di “voto di scambio” che non ha funzionato, perché confuso, pasticciato, incerto. Una volta filo-governativo per definizione nel lungo ciclo della Prima Repubblica e granaio di consenso del Potere finché ha funzionato la leva della spesa pubblica, negli anni della crisi il Mezzogiorno si conferma termometro delle sperimentazioni politiche e del voto cangiante, anticipando le novità nazionali: il grande successo di Renzi alle europee, poi la valanga dei Cinque Stelle, ora la Lega e l’ecatombe dei Cinque Stelle dove solo un anno fa registravano percentuali “maggioritarie”. Parliamoci chiaro: questo voto segna la mutazione genetica del governo del contratto in un governo di estrema destra, con Salvini che, da oggi, è una sorta di premier virtuale, più legittimato del Re Travicello piazzato a palazzo Chigi un anno fa. E mette i Cinque Stelle con le spalle al muro. Perché il film di quel che accadrà è già scritto. Salvini si presenterà al prossimo consiglio dei ministri con la lista delle cose da fare (tav, autonomia, decreto sicurezza) perché lo “chiede il paese”. Subito. E Di Maio si troverà di fronte al drammatico dilemma se avallare provvedimenti finora giudicati indigeribili, per salvare la cadrega, compiendo la definitiva trasformazione in costola della Lega (e continuando a perdere consenso) o assumersi l’onere di un no che è, al tempo stesso, l’onere di una crisi di governo. E questo avviene nell’assoluta impasse strategica di un Movimento nel pieno di una crisi identitaria, segnata dal fallimento di una svolta a sinistra, improvvisata per recuperare il cedimento a destra dell’ultimo anno. Di Maio perde se incontra i gilet gialli, perde se fa il moderato, perde se vuole sforare il 3 per cento, perde se fa il custode, perché è chiaro che, quando alle chiacchiere non corrispondono atti concreti, un leader crolla nella baratro della sua non credibilità. È prematuro parlare di rinascita del bipolarismo. Ma per la prima volta, da un po’ di tempo a questa parte, il centrosinistra torna a essere una alternativa potenziale. Perché si è rianimato il Pd (quattro punti in più dell’anno scorso) e, finita l’era dell’autosufficienza, si intravede un “campo largo”. Sommando al Pd i voti di più Europa (3,5) e dei Verdi (2,5), il centrosinistra è al 28 per cento circa. È un bel passo avanti. Più in generale è cambiata la dinamica politica. Questo è il punto. Fallito lo schema a due, di maggioranza e opposizione nell’ambito dello stesso governo, il centrosinistra è l’unica alternativa. C’è il governo, a trazione Salvini, con la complicità dei Cinque Stelle, privi della forza contrattuale per contrastarlo e della volontà, per ora, di farlo saltare. E c’è l’alternativa del centrosinistra. L’ambiguità è finita
Fonte HuffPost
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