Per i pm una maxi-rete eversiva di spie, per il gip una banda di piccoli ricattatori
La Procura di Milano descrive una pericolosissima cricca con agganci con mafia e servizi, anche stranieri, capace di spiare anche le più alte cariche dello Stato (Mattarella, La Russa), "pericolosa per la democrazia".
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Nell’ordinanza, però, il gip ridimensiona, e di molto, l’ambito di azione e di minaccia. Una divergenza di vedute che emerge anche nelle misure cautelari assegnate
Una pericolosissima banda di delinquenti, con agganci con mafia e Servizi, anche stranieri, capace di bucare finanche le e-mail del Colle e le informazioni riservate sul presidente del Senato e il figlio. O una cricca di spioni, composta anche da dipendenti dello Stato infedeli, dedita a rubare dati riservati a beneficio di clienti provenienti dal mondo dell’economia che conta. Una cricca pericolosa, sì, perché segnala quanto il sistema dei database delle pubbliche amministrazioni (con dati segreti e sensibili) sia bucabile, ma non temibile al punto da mettere a repentaglio la tenuta della democrazia.
A leggere bene le carte dell’inchiesta milanese sul furto dei dati sensibili dalle piattaforme pubbliche a beneficio di vari imprenditori, emerge una divergenza di vedute tra la procura e il giudice per le indagini preliminari: per la prima gli indagati sono “soggetti che rappresentano un pericolo per la democrazia di questo Paese”, e godono “di appoggi di alto livello, in vari ambienti, anche quello della criminalità mafiosa e quello dei servizi segreti, pure stranieri”. Si tratta, aggiungono i pm parlando degli hacker, dei poliziotti e degli imprenditori indagati, di soggetti che sono stati in grado di mettere in campo “la creazione di vere e proprie banche dati parallele vietate e con la circolazione indiscriminata di notizie informazioni sensibili, riservate e segrete, sono in grado di ‘tenere in pugno’ cittadini e istituzioni” e “condizionare” dinamiche “imprenditoriali e procedure pubbliche, anche giudiziarie”. Secondo i pm gli indagati erano in possesso anche di dati classificati e “formalmente riconducibili all’Aise”.
Il gip, dal canto suo, non nega l’esistenza di banche dati parallele, estratte illegalmente. Avvalora inoltre la tesi secondo cui questi dossieraggi – per motivi economici ma anche privati – ci siano stati e la mole di informazioni rubate è notevole. Ma non segue i pm sulla pista dei legami con la mafia o con i servizi, né mette in guardia da pericoli per la democrazia. Una divergenza di vedute che si nota anche nelle misure cautelari assegnate: i pm avevano chiesto il carcere per 13 persone, sostenendo che, data la gravità dei fatti – e i legami presunti com mafiosi e Servizi – fosse l’unica misura possibile. Il gip, però, in carcere non ha mandato nessuno: ha disposto gli arresti domiciliari per quattro persone e la sospensione dal lavoro per altre due. Segno, questo, che c’è un pezzo dell’impianto della procura che non l’ha convinto.
Dalle carte dei pm, in effetti, emergono alcuni elementi che non sono riportate nell’ordinanza del gip. Una di queste, la più potenzialmente clamorosa, riguarda il Quirinale. Due indagati, Nunzio Samuele Calamucci e l’ex super poliziotto Carmine Gallo, ora agli arresti domiciliari, in un’intercettazione sostengono di aver messo le mani su un’indirizzo email del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. L’espressione è volutamente generica, perché dalla ricostruzione non si capiscono i termini esatti dell’operazione. Secondo i pm, Calamucci e Gallo “lasciano intendere di aver intercettato (…) un indirizzo email assegnato alla massima carica dello Stato, il Presidente Sergio Mattarella o comunque di essere riusciti (…) a utilizzare abusivamente o a clonare il predetto account”. Lo lasciano intendere, però, solo parole: “Noi l’abbiamo spedita a venti persone, più tre mail, una mail intestata a Mattarella, con nome e cognome che se vanno a vedere l’account è intestato al Presidente della Repubblica”, dice Calamucci a Gallo. Ulteriori riscontri, al momento, non emergono. Nelle carte del gip, dunque, non ci sono riferimenti a questo episodio.
Più circostanziata – ma comunque non evidenziata dal gip – è la richiesta, da parte di un indagato, di informazioni su di Ignazio La Russa e del figlio. A chiedere approfondimenti sulla seconda carica dello Stato, nella primavera del 2023, sarebbe stato Enrico Pazzali, socio di maggioranza della società di investigazioni al centro dell’inchiesta e presidente della fondazione Milano Fiera: “Ignazio La Russa!”, “diciotto luglio. esatto, abita in..” “E metti anche un altro se c”è… eh…come si chiama l’altro figlio? Eh…Geronimo”, è il contenuto delle intercettazioni. Non è chiaro né a cosa servisse questo dossier né esattamente cosa contenesse. Si chiede chi sia il mandante anche il diretto interessato: “Conosco da anni Enrico Pazzali che ho sempre ritenuto una persona perbene e vorrei poter considerare, fino a prova contraria, un amico di vecchia data. Attendo di avere altri elementi, quindi, prima di un giudizio definitivo assai diverso su di lui – si legge in una nota del presidente del Senato, Ignazio La Russa – noto che i suoi attuali ruoli in Fiera non dipendano da FdI ne tantomeno da me e sono stupito più che allarmato, dalle notizie di una sua azione di dossieraggio nei miei riguardi. Sono infine disgustato dal fatto che ancora una volta i miei figli, Geronimo e Leonardo, debbano pagare la “colpa” di chiamarsi La Russa se risulterà confermato che anche loro sono stati spiati. Ora l’unica cosa che mi premerebbe sapere è chi possa aver commissionato il dossieraggio contro la mia famiglia”.
Altri politici chiamati in causa sono la ministra Daniela Santanché, con cui Pazzali avrebbe parlato di un consulente di Palazzo Chigi definito “nazista” e il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, vicino a Pazzali e avversario elettorale di Letizia Letizia Moratti durante le elezioni del 2023, nei confront della quale era stato confezionato un dossier. Pazzali in un’intercettazione sostiene che il governatore gli abbia chiesto delle informazioni sui precedenti penali di un terzo soggetto. Sono gli stessi pm, però, a dire che non ci sono atti a sostegno di queste parole.
Il fatto che siano state tirate in ballo – almeno dall’accusa – operazioni ai danni delle più alte cariche dello Stato è sicuramente un elemento da tenere in considerazione, perché segnala la difficoltà del sistema Paese di mantenere la riservatezza di chi ricopre i massimi ruoli istituzionali. Ed è anche per questo che Giorgia Meloni, riferendosi in generale ai dossieraggi scoperti negli ultimi mesi, nell’ultimo libro di Bruno Vespa dice: “Sulla vicenda dei dossieraggi mi aspetto che la magistratura vada fino in fondo, perché, nella migliore delle ipotesi, alla base di questo lavoro c’era un sistema di ricatto ed estorsione, ma nella peggiore siamo davanti al reato di eversione. Nessuno Stato di diritto può tollerare una cosa del genere”.
Bisogna rilevare, però, che al momento non emergono elementi tali da far pensare che siano fosse la politica il primo bersaglio di questa banda di spioni ad alti livelli milanesi. I bersagli principali, infatti, erano gli imprenditori e le loro famiglie. E non sempre per motivi strettamente di business. Un paio di esempi per rendere l’idea: secondo l’accusa, Leonardo Maria Del Vecchio, uno degli indagati, aveva fatto inoculare un trojan illegale nel cellulare della fidanzata per vedere con chi messaggiava. E sempre a beneficio del figlio del fondatore di Luxottica era stato confezionato ad arte un dossier nei confronti del fratello Claudio. Nel carteggio fasullo si sosteneva che quest’ultimo a New York era stato visto con una persona trans che era nella lista dei sex offenders.
Bisogna ricordare che per quanto l’inchiesta della procura di Perugia sul finanziere Pasquale Striano abbia fatto emergere una notevolissima attività di traffico di dati sensibili di personaggi politici passati dalla cassaforte dell’antimafia ai giornalisti – al punto che Raffaele Cantone ha parlato di “verminaio” – non è ancora chiaro se si trattasse di veri e propri dossier ai danni del governo. Non a caso, infatti, a essere spiati da Striano erano soggetti di centrodestra ma anche di centrosinistra. Siamo di fronte a un elevatissimo pericolo per la democrazia o a un paio di bande Bassotti che cercano profitto e con i loro illeciti ci mettono di fronte alla triste realtà di una cybersicurezza che sembra un colabrodo? Potranno dirlo solo i processi.
Al di là di quale interpretazione prevarrà di quali fatti saranno ritenuti veri al processo e di quali, invece, saranno cestinati, resta un dato di fondo: accedere illecitamente ai dati sensibili, dei politici e di tutti i cittadini, e difforderli illegalmente è troppo facile. Per provare ad arginare questa emorragia di informazioni, almeno per il futuro, dal Viminale fanno sapere che nel ministero retto da Matteo Piantedosi sta operando “una commissione di specialisti già in precedenza istituita dal ministro anche per definire eventuali ulteriori misure e procedure a protezione delle strutture informatiche interforze”. Piantedosi, si apprende, ha chiesto al capo della Polizia, Vittorio Pisani, di acquisire dall’autorità giudiziaria gli atti di indagine utili per avviare verifiche “su ipotizzati accessi abusivi alle banche dati del ministero o sull’utilizzo illecito delle stesse”. Le piattaforme più bucate in effetti, sarebbero proprio quelli che contengono precedenti di polizia, oltre che dati sul fisco e sul patrimonio. Per questo ora il Viminale prova a metterci una pezza. Operazione, questa, non semplice, se sono vere le parole di uno degli indagati che, parlando con gli interlocutori si vantava così: “Abbiamo un vantaggio di 4 anni e mezzo, scarichiamo tutti i dati possibili”. Un vantaggio, a questo punto, difficile da colmare.
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