Anno: XXV - Numero 236    
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400 miliardi (burocrazia permettendo)

Il governo mette in campo un'ingente liquidità per i prestiti alle imprese. Il meccanismo però è farraginoso: dalle procedure dipende quando arrivano i soldi sul conto degli imprenditori

400 miliardi (burocrazia permettendo)

Il grande annuncio arriva in diretta tv all’ora di cena. Il protocollo della comunicazione si ripete ancora una volta: la telecamera puntata in faccia a Giuseppe Conte, i ministri fidati a fianco, un decreto da tradurre e consegnare agli italiani. Serve un numero per quantificare il soccorso alle imprese. Chiuse, con le entrate a zero ma le bollette, gli affitti e le altre spese da pagare comunque. Eccolo il numero, scandito dal premier e accompagnato con l’espressione “potenza di fuoco”: 400 miliardi. I 400 miliardi sono le garanzie lo Stato metterà sui prestiti alle imprese. L’azienda va dalla banca, prende il prestito e se non lo restituisce entro sei anni allora ci pensa lo Stato al rimborso. Questa è la formula della garanzia, ma le stesse norme del decreto aprono zone grigie, non rispondono con chiarezza alla grande domanda che si fanno gli imprenditori, piccoli o grandi che siano: quando arrivano i soldi? La traccia del decreto dice di una montagna di soldi ma anche di procedure da verificare. Il Cura Italia, tra l’altro in ostaggio delle opposizioni in Parlamento, è lì a ricordare che l’arrivo dei bonus e della cassa integrazione di marzo è fissata al 15 aprile, con uno sfasamento di due settimane rispetto alle esigenze di un Paese che si è fermato prima, con la serrata entrata in vigore l′11 marzo. Sempre – e il dubbio non è un azzardo vista come si è inceppata la macchina dell’Inps – che arrivino entro metà mese. La grande questione che l’annuncio di Conte non chiarisce è, come si diceva, quella dell’arrivo dei soldi. Ma ne genera un’altra: l’affanno nell’adeguare la strategia contro il virus, tra l’altro disordinata, ai tempi veloci della crisi del Paese. La scommessa si gioca tutto qui e cioè nel dimostrare che in un tempo di emergenza come quello che si sta vivendo, la catena di comando è capace di un ritmo straordinario, eccezionale. In poche parole di rompere il processo farraginoso fatto di moduli da compilare, documenti da presentare e autorizzazioni da ricevere. Ancora di più: spezzare il laccio della burocrazia, della grande frenatrice per le imprese.  Stando alla bozza del decreto (il testo approvato dal Consiglio dei ministri non è ancora disponibile ndr), alcune criticità si possono già riscontrare. Prendiamo le piccole e medie imprese, ma anche le partite Iva e gli autonomisti che hanno un fatturato non esorbitante. Chi può confidare di prendere un prestito in tempi rapidi è l’artigiano, il piccolo commerciante, l’idraulico, il professionista senza una partita Iva pesante. Questi e tutti quelli che chiederanno alla banca fino a 25mila euro. Solo fino a questa quota non ci sarà la valutazione del merito del credito, cioè non dovranno aspettare l’esito dell’analisi sull’affidabilità a restituire il prestito. I prestiti, in questo caso, saranno diretti: le banche non dovranno aspettare il via libera del Fondo di garanzia – il contenitore dei soldi – per erogare le risorse. Ma salendo in su, spuntano i paletti. La garanzia al 100% (lo Stato rimborsa tutto il prestito alla banca se l’azienda non la rimborsa) scende al 90% per i prestiti tra 25mila e 800mila euro: il 10% che resta scoperto è sulle spalle dell’impresa, non è coperto. Nella bozza c’è scritto che questo 10% è coperto da Confidi, ma sono fidi privati, non pubblici. Da 800mila euro e fino a 5 milioni di euro, la garanzia statale è solo del 90 per cento. Per entrambe le ultime tipologie di prestiti non ci sarà la valutazione andamentale. Quando l’imprenditore andrà in banca a chiedere i soldi, il check sullo stato di salute non terrà conto dei danni provocati dal virus già dalle scorse settimane. Ma un check più generale verrà comunque fatto. E si ritorna così al grande quesito: questi passaggi saranno rapidi? Non si poteva adottare un sistema ancora più rapido come avviene in Francia o in Germania? Le domande sono lecite. Se l’è poste anche Matteo Renzi, che ha spinto fino all’ultimo per portare tutte le garanzie al 100 per cento. Ecco come il leader di Italia Viva commenta a caldo il decreto: “Speravamo in un meccanismo più semplice e meno burocratico, ma va bene!”.  Per le grandi imprese, quelle che con più di 500 dipendenti secondo la suddivisione fatta dal governo, la garanzia sarà al 90 per cento. Vale qui la stessa considerazione in campo per le piccole e medie imprese: un 10% non avrà la protezione dell’ombrello dello Stato. Queste sono le zone grigie del decreto che, come si diceva, mette in campo 400 miliardi di garanzie: 200 miliardi per quelle dentro i confini nazionali, altri 200 per l’export. I soldi freschi che il governo mette in campo sono 37 miliardi in tutto: 30 per le grandi imprese e 7 per il Fondo di garanzia per le Pmi. È la prima riserva che viene messa in cascina nel caso le imprese non riescano a restituire il prestito. Uno schema di erogazione che passa da due grandi distributori: il Fondo di garanzia e Sace, la società di Cassa depositi e prestiti dedicata all’export e cambiata d’abito per l’occasione. Già Sace. Insieme alla quota delle garanzie statali, è stata la grande questione che ha tenuto bloccato il decreto in una girandola impazzita di mediazioni, vertici di maggioranza e persino un Cdm sospeso da un’ora e mezza per manifesta incapacità a deliberare. Un vortice durato due giorni. E placato solo con un compromesso tra il Tesoro e i 5 stelle. Perché anche questo è stata la gestazione del decreto per le imprese: un tira e molla infuocato tra poteri e interessi da bilanciare all’interno del governo. Neppure l’emergenza ha cancellato il tratto della litigiosità.

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