Abuso d’ufficio sì o abuso d’ufficio no?
La discussione è di grande attualità.
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L’art. 323 del nostro Codice penale così prevede: «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità».
Più ampia la proposta della Commissione UE come dossier n. 23 della Camera dei Deputati:
Propongo una serie di valutazioni alla luce della Direttiva della Commissione Europea al Parlamento Europeo e al Consiglio del 3 maggio 2023 sulla lotta contro la corruzione, del dossier n. 23 del 28 giugno 2023 della Camera dei Deputati, Ufficio Rapporto con l’Unione Europea XIX Legislatura e delle osservazioni del Presidente dell’ANAC sulle proposte di legge in materia di modifica della disciplina dei reati di abuso d’ufficio e di traffico di influenze illecite.
Prima di tutto va detto che l’abuso d’ufficio è previsto in tutti gli Stati membri della UE e questo mi pare già indicativo.
Va evidenziato poi che l’indice di corruzione in Italia è valutato sotto la media UE mentre i Paesi con rischio di corruzione negli appalti pubblici superiore alla media UE sono Polonia, Romania, Lituania, Cipro e Croazia.
Il reato di abuso d’ufficio ha natura residuale e sussidiaria e si configura sostanzialmente come un “reato di chiusura”, idoneo ad assicurare una copertura penale a fatti non perseguibili da altre fattispecie, e insieme come “reato – spia” di ulteriori comportamenti criminosi cosicché, scrive l’ANAC, appare ragionevole perseguire l’obiettivo di una più rigorosa tipizzazione della fattispecie, mediante una ancora più puntuale delimitazione dell’ambito applicativo rispetto all’intervento legislativo del 2020, senza tuttavia pervenire all’abrogazione dell’istituto.
L’abuso d’ufficio è stato portato anche all’attenzione della Corte Costituzionale la quale con la sentenza n. 8/2022, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale della citata norma – pur evidenziando come l’intervento riformatore nascesse, soprattutto, dall’esigenza contingente di assicurare le condizioni per una rapida ripartenza del Paese dopo il blocco delle attività imposto dall’emergenza pandemica – ha comunque mostrato di non rilevare criticità in relazione ad una limitazione della sfera applicativa del reato di abuso d’ufficio che fosse effettuata attraverso una più rigorosa tipizzazione della fattispecie.
Dalla sentenza 8/2022:
«Per meglio affrontare le questioni, è necessario ricostruire preliminarmente la genesi della disposizione sottoposta a scrutinio, ripercorrendo, in sintesi, la travagliata vicenda normativa e giurisprudenziale che si colloca alle sue spalle. La figura criminosa dell’abuso d’ufficio, assolvendo una funzione “di chiusura” del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, rappresenta, infatti, il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa: tematica percorsa da una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo, atto a fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante. Al tempo stesso, si tratta di fattispecie caratterizzata da congeniti margini di elasticità, generatori di persistenti problemi di compatibilità con il principio di determinatezza. Di tutto ciò è testimonianza la tormentata parabola storica della figura.
2.1.– Nel disegno originario del codice penale del 1930, l’abuso d’ufficio era descritto all’art. 323 con formula semplice, ma, in pari tempo, estremamente comprensiva: veniva, infatti, punito il pubblico ufficiale che, «abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette[sse], per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge». Le criticità di una ipotesi criminosa così congegnata rimanevano, peraltro, attutite dal fatto che essa era chiamata a recitare un ruolo marginale nel sistema. Si trattava, infatti, di una figura sussidiaria e blandamente punita, stretta, com’era, tra le due fattispecie delittuose cui risultava allora precipuamente affidato il controllo di legalità sull’attività amministrativa: il peculato per distrazione e l’interesse privato in atti d’ufficio (artt. 314 e 324 cod. pen.). Figure anch’esse, peraltro, dai contorni assai labili, che permettevano alla magistratura penale penetranti incursioni sulle scelte della pubblica amministrazione.
2.2.– Lo scenario mutava con la riforma operata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), la quale, onde arginare tale temperie, estromise dalla fattispecie del peculato la forma per distrazione e abrogò il reato di interesse privato in atti d’ufficio. Di riflesso, però, la riforma riscrisse l’art. 323 cod. pen., nella prospettiva di far refluire nell’abuso d’ufficio una parte delle condotte già colpite dalle fattispecie abrogate, con un filtro – almeno negli intenti – di maggiore selettività. A questo fine, si prevedeva che l’abuso d’ufficio – esteso anche agli incaricati di pubblico servizio – dovesse essere finalizzato ad un vantaggio, proprio od altrui, «ingiusto», o a un danno altrui del pari «ingiusto», con la previsione di un sensibile aumento della pena, qualora il vantaggio fosse di natura patrimoniale. I risultati non furono, tuttavia, quelli sperati. L’abuso d’ufficio acquistava di colpo una centralità applicativa in precedenza ignota, non accompagnata, però, da un reale incremento di determinatezza della fattispecie tipica, la quale restava incentrata su una condotta in sé vaga – quale quella di «abusa[re] del[l]’ufficio» – senza che il requisito dell’ingiustizia del vantaggio o del danno, oggetto del dolo specifico, si rivelasse capace di delimitare adeguatamente i confini del tipo. Il rivisitato art. 323 cod. pen. divenne, così, il nuovo strumento per un penetrante sindacato della magistratura penale sull’operato dei pubblici funzionari, adombrando il costante spettro dell’avvio di indagini in loro danno.
2.3.– A distanza di pochi anni, il legislatore corse quindi ai ripari, riscrivendo una seconda volta la norma incriminatrice con l’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale). Dismesso il generico riferimento all’abuso dell’ufficio (che resta solo nella rubrica dell’art. 323 cod. pen.), la condotta tipica viene individuata nella «violazione di norme di legge o di regolamento», ovvero, in alternativa, nella omessa astensione «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti». La fattispecie si trasforma, altresì, in reato di evento, essendo richiesta, ai fini del suo perfezionamento, l’effettiva verificazione dell’ingiusto danno o dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (il vantaggio non patrimoniale perde rilevanza); evento che deve essere oggetto di dolo intenzionale. Nel risagomare la figura, il legislatore del 1997 aveva agito con il trasparente intento di renderne più nitidi i confini, impedendo, in specie, un sindacato del giudice penale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Il riferimento alla «violazione di norme di legge o di regolamento», evocando uno dei vizi tipici dell’atto amministrativo, doveva servire infatti a metter fuori, a contrario, l’eccesso di potere, non menzionato. Le intenzioni del legislatore hanno dovuto, però, fare i conti con le soluzioni della giurisprudenza, la quale, dopo una fase iniziale di ossequio allo spirito della novella, è virata verso interpretazioni estensive degli elementi di fattispecie, atte a travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa aveva inteso fissare e a riaprire ampi scenari di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale. Per quanto qui più interessa, è venuto infatti a consolidarsi, da un lato, nella giurisprudenza di legittimità, l’indirizzo in forza del quale la «violazione di norme di legge», rilevante come abuso d’ufficio, può essere integrata anche dall’inosservanza del generalissimo principio di imparzialità della pubblica amministrazione, enunciato dall’art. 97 Cost.: principio che – secondo la Corte di cassazione – nella parte in cui vieta al pubblico funzionario di operare ingiustificati favoritismi o intenzionali vessazioni, esprimerebbe una precisa regola di comportamento di immediata applicazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 21 febbraio 2019-23 maggio 2019, n. 22871; Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 giugno 2018-29 ottobre 2018, n. 49549; Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 27 ottobre 2015-20 novembre 2015, n. 46096). Dall’altro lato, poi, si è assistito al recupero nell’area di rilevanza penale degli atti viziati da eccesso di potere, nella forma dello sviamento. Con soluzione ermeneutica avallata dalle sezioni unite, la Corte di cassazione ha ritenuto, infatti, che la violazione di legge cui fa riferimento l’art. 323 cod. pen. ricorra non solo quando la condotta del pubblico funzionario si ponga in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando sia volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, dando luogo appunto a un vizio di sviamento: vizio che integrerebbe la violazione di legge, perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 settembre 2011-10 gennaio 2012, n. 155). Si è venuta a creare, in questo modo, una situazione che riecheggia, per molti versi, quella registratasi all’indomani della legge n. 86 del 1990 e alla quale la successiva legge n. 234 del 1997 aveva inteso por rimedio. Ciò, peraltro, in presenza di un inasprimento della pena edittale del reato, che, già fissata da tale ultima legge nella reclusione da sei mesi a tre anni, è stata elevata dall’art. 1, comma 75, lettera p), della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) alla reclusione da uno a quattro anni.
2.4.– La vicenda ora descritta non è rimasta, tuttavia, priva di ricadute. Per opinione ampiamente diffusa, deve individuarsi, infatti, proprio in tale stato di cose una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno che si è soliti designare come “burocrazia difensiva” (o “amministrazione difensiva”). I pubblici funzionari si astengono, cioè, dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”). A questi fini, poco conta l’enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico, tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi. Il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di raffreddamento”, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante. Tutto ciò, peraltro, con significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati.
2.5.– Benché l’esigenza di contrastare la “burocrazia difensiva” e suoi guasti, agendo sulle cause del fenomeno, fosse già da tempo avvertita, la scelta di porre mano all’intervento è maturata solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza. Si allude al d.l. n. 76 del 2020, correntemente noto come “decreto semplificazioni”. Il provvedimento si occupa, in un apposito capo (il Capo IV del Titolo II), intitolato «[r]esponsabilità», delle due principali fonti di “timore” per il pubblico amministratore (e, dunque, dei suoi “atteggiamenti difensivistici”): la responsabilità erariale e la responsabilità penale. Entrambe vengono fatte oggetto di modifiche limitative e all’insegna della maggiore tipizzazione. Quanto alla responsabilità penale, l’art. 23 del decreto-legge in esame – norma oggi censurata, rimasta invariata all’esito della conversione operata dalla legge n. 120 del 2020 – ridefinisce per la terza volta, nel suo unico comma, il perimetro applicativo del delitto di abuso d’ufficio: nell’occasione, però, senza riscrivere per intero la disposizione del codice penale, ma incidendo in modo “mirato” sulla prima delle due condotte tipiche, rappresentata dalla «violazione di norme di legge o di regolamento» (mentre quella alternativa dell’inosservanza di un obbligo di astensione resta invariata). La modifica consiste, in specie, nella sostituzione della locuzione «di norme di legge o di regolamento» con l’altra «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità». In negativo, dunque, la recente novella estromette il riferimento ai regolamenti; in positivo, richiede che la violazione abbia ad oggetto regole specifiche previste in modo espresso da fonti primarie e che non lascino al funzionario pubblico spazi di discrezionalità. Particolarmente su questo secondo versante, risulta trasparente l’intento di sbarrare la strada alle interpretazioni giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operatività della norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.; richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare «margini di discrezionalità» si vuol negare rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere. Si è, dunque, al cospetto di una modifica di segno restrittivo dell’area di rilevanza penale – specie nel raffronto con la “norma vivente” disegnata dalle ricordate interpretazioni giurisprudenziali – con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale, operanti, come tali, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi (quali quelli oggetto del giudizio a quo). Della legittimità costituzionale di un simile intervento dubita, tuttavia, l’odierno rimettente, ponendo in discussione, sul piano costituzionale, sia la scelta di attuarlo tramite provvedimento d’urgenza, sia la correttezza, dal punto di vista sostanziale, delle soluzioni concretamente adottate».
Per l’ANAC «la spinta di intervento legislativo per venire incontro alle esigenze degli amministratori pubblici non si risolve esclusivamente intervenendo sulla struttura del reato di abuso d’ufficio. Il deficit di fluidità che incide sull’agire amministrativo trova le sue radici in una serie di concause, non soltanto collegate alla fattispecie penale e, pertanto, l’intervento legislativo potrebbe esercitarsi anche rispetto ai profili di carattere organizzativo e strutturale dell’apparato amministrativo che consentano ai funzionari pubblici di agire nel massimo dell’efficienza e della consapevolezza, superando l’arretratezza organizzativa (ad esempio di personale con qualificato) in cui spesso si trovano ad operare gli amministratori».
L’abolizione tout court del reato di abuso d’ufficio, a mio giudizio, ci porrebbe in contrasto sia con la legislazione internazionale che con quella europea e probabilmente ci farebbe perdere quel giudizio positivo di cui ho parlato più sopra dove il rischio di corruzione negli appalti pubblici in Italia oggi è valutato sotto la media UE.
Dico questo perché in questi giorni, proprio la Camera dei Deputati, ha bocciato la direttiva UE sulla corruzione laddove ribadisce che l’abuso d’ufficio è un reato fondamentale nella lotta alla corruzione e che non può essere cancellato.
La questione merita quindi di essere attentamente rivalutata.
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