Anno: XXV - Numero 214    
Giovedì 21 Novembre 2024 ore 13:20
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Banche grasse, economia a dieta

La stagione d’oro del credito è l’effetto combinato di due fattori: l’aumento dei tassi d’interesse e il mancato adeguamento degli interessi attivi sui depositi alla clientela. Ma se lo sportello ride, l’economia reale soffre. L’inflazione rimane elevata, il costo del denaro è alle stelle e la produzione industriale frena. E la battaglia contro l’inflazione della Bce rischia di alimentare una recessione durissima

Banche grasse, economia a dieta

Segniamoci questa data: 12 giugno 2023. Secondo quanto riporta il sito di Banca Intesa San Paolo, il Ceo della medesima banca, Carlo Messina, è andato al congresso della Fabi, uno dei principali sindacati dei bancari, e con elegante disinvoltura ha preannunciato che i 435 euro di aumento salariale richiesti dal sindacato vanno benissimo. Di più: «la Banca non intende neppure avviare la trattativa (non adotterà “nessun approccio negoziale”) perché non è accettabile non dare ai lavoratori un incremento consistente».

In un amen Messina ha azzerato un paio di secoli di “lotta di classe”: con buona pace dei più recenti estimatori, ha seppellito Marx semplicemente dandogli ragione: se l’impresa fa utili è giusto che il lavoratore partecipi, con un adeguamento salariale, all’utile aziendale. Per meglio contestualizzare la linea di trattativa bisogna ricordare che Intesa (70 mila dipendenti) ha rotto il fronte “padronale” uscendo dal comitato sindacale ABI e che l’ultimo rinnovo contrattuale fa seguito a quello del 2019-2022 che si era chiuso con un incremento di 190 euro (+20%) portando il costo medio per addetto attorno ai 60 mila euro: tanta roba. Insomma, il povero “compagno di scuola… sei finito in banca pure tu”, secondo quanto cantava Antonello Venditti, responsabile di alto tradimento rispetto a coloro che perseguivano ideali ben più elevati, oggi non dovrebbe lamentarsi della sua, appena raggiunta, “comfort zone”.

Eppure, a una più attenta e misurata valutazione ci si rende conto che la situazione è terribilmente più complessa: l’intervento di Carlo Messina è il succo dell’evoluzione dell’attuale quadro economico – tanto paradossale quanto denso di rischi – non solo per il segmento del credito ma per l’intero sistema economico. Lo stato di salute del settore bancario italiano (ma il discorso vale per tutta l’eurozona) potrebbe essere minato, e drammaticamente messo in discussione, da una incipiente crisi dell’intero sistema per ora valutata come “congiunturale”, che non riusciamo a fotografare in modo nitido per via del fatto che, come sempre, i suoi fattori di criticità, si manifestano secondo modalità asincrone.

I dati formali parlano chiaro: dopo un ottimo 2022, la prima trimestrale 2023 ha esibito un andamento trionfale: gli utili complessivi di sistema sfiorano i 5 miliardi di euro. Un paio di esempi: Unicredit invece dell’atteso +1,3 miliardi ha fatto registrare un risultato doppio, +2,1 miliardi di euro; BNL cresce del 63,1%. Ciò che spinge in alto le trimestrali è un componente fattoriale da oltre un decennio sotto pressione, ovvero il “margine di interesse”: la differenza tra tassi attivi e tassi passivi. Nel 2022 la crescita è stata del 18% su base annua, per l’anno corrente l’aspettativa è di una performance ancora più sostenuta. Alla base di questo risultato eccellente per il sistema creditizio (e per la sua stabilità, che è comunque un bene comune) ci sono due elementi: l’incremento del costo del danaro che, a partire da luglio dello scorso anno è aumentato di circa 4,5 basis point e il mancato adeguato riconoscimento alla clientela degli interessi attivi sui depositi che solo recentemente cominciano ad essere rivisitati (con una offerta per i time deposit a 12 mesi tra il 2 ed il 3%). Può apparire assurdo ma secondo alcuni esperti (fonte: Money.it) nel 2022 ogni 50 basis point di incremento del costo del denaro si è trasformato in un utile dell’8%. Un ragionamento condiviso da Bloomberg che ritiene che si possa prevedere una crescita media dei profitti bancari nel 2023 del 20%.  Sbaglieremmo se ritenessimo questi risultati solo l’esito di una scaltra e cinica politica di tassi di interesse. Ci sono altri fattori strutturali che hanno portato ad un risultato che posiziona l’intero sistema creditizio in territorio positivo dopo il drammatico decennio 2008 – 2018 con la crisi dei debiti sovrani:

  1. a) la riduzione di circa 100 mila addetti (i dipendenti di Unicredit sono diminuiti del 46%, quelli di MPS del 30%, quelli di Intesa del 15%);
  2. b) la gestione delle partite deteriorate che aveva raggiunto l’astronomico importo di 350 miliardi è ormai ridotta a meno di 40 miliardi passando dal 18% del totale degli impieghi al 3,3%;
  3. c) l’indice di patrimonialità primario, il CET1, è ora mediamente superiore al 10%, dopo aver strisciato per anni sui minimi ammissibili del 6%.

Questi risultati sono il frutto di più fattori concomitanti tra loro (digitalizzazione, adozione massiva dell’home banking e riduzione degli addetti, politiche di M&A, ovvero le fusioni), non ultimo l’intervento massiccio dello Stato attraverso, per esempio, i fondi di supporto alla operazioni di cartolarizzazione e le ripetute operazioni di rifinanziamento del Fondo Centrale di Garanzia, che hanno consentito un crescita esplosiva degli impieghi (ad esempio nel 2020) con una assunzione del rischio credito ridotta in modo sistematico per la banca nella misura del 20% del finanziato.

Se le banche ridono, le imprese piangono. Secondo Confindustria (bollettino congiunturale di giugno 2023) sono evidenti i segnali di indebolimento dell’economia italiana, a cominciare dall’industria: la crescita è fragile, il calo dell’inflazione è lento, e soprattutto la stretta monetaria messa in campo dalla Banca centrale europea: una vera e propria crociata contro l’inflazione quella di Christine Lagarde, che ha annunciato di proseguire sulla strada dei rialzi dei tassi fino a quando il rischio inflazione accettabile (2%) non sarà concretamente raggiunto.

In sostanza secondo Confindustria, l’inflazione fatica a scendere (è al 7,6% contro un 8,2% del 2022); i tassi sono in costante aumento (si è passati da un tasso medio alla clientela dell’1,6% del 2020 al 4,52% di aprile 2023: un livello destinato a salire ulteriormente dopo che la Banca centrale europea a giugno ha portato il tasso di sconto al 4%); i consumi e gli investimenti sono in calo e non va meglio all’export, diminuito tra marzo ed aprile 2023 quasi del 4%, anche perché le criticità geopolitiche non accennano ad allentarsi.

Questa situazione che presumibilmente sta per dischiudere le porte ad un ciclo recessivo a tempo indeterminato è visibilmente testimoniata dall’andamento dei consumi, dove emergono situazioni piuttosto singolari: nel 2022 la spesa per i consumi è salita del 2,4% (l’abbigliamento sale del 12,3%, ma l’alimentare scende del 3,7% e crolla dell’8,7% nel dicembre 2022). Quest’ultimo dato è particolarmente rilevante poiché la spesa alimentare rappresenta il 14% dei consumi ed è seconda solo alle spese per l’abitare e per l’energia (23%).

Insomma, i sintomi classici che consentono di prefigurare un principio di crisi imminente dell’economia globale sono ben evidenti. Proviamo a riassumerli:

    Inflazione che si mantiene assai elevata, ben lontana dal target (2%) nonostante la cura da cavallo praticata dalle Banche centrali.

    Costo del denaro alle stelle, con tassi di interesse in aumento: i tassi praticati alla clientela non primaria quindi con rating mediani, tra il 4 ed il 6 (qui si colloca il grosso del sistema imprenditoriale e dei liberi professionisti) partono da un euribor a tre o a sei mesi + almeno 3-4 punti di spread (si viaggia tra il 7 ed il 9 per cento, una cosa impensabile solo un anno fa).

    consumi essenziali in calo, vedi il crollo del settore alimentare.

    frenata della produzione industriale (anche a causa di altri fattori negativi come i tempi di fornitura, ma carenza di materie prime, la lentezza dei trasporti su larga scala, la crisi delle catene di subfornitura internazionali).

    blocco degli investimenti in beni durevoli (principalmente a causa il forte costo del credito).

    caduta dell’interscambio sui mercati esteri: qui pesano essenzialmente i fattori geopolitici e le politiche protezionistiche che stanno conoscendo un nuovo revival (sempre come riflesso ideologico delle crisi geo-politiche.

E le banche chiudono i cordoni della borsa. L’European Bank Lending Economic Forecast 2022 di EY ha scodellato i dati congiunturali sull’andamento dei mercati del credito in termini di flessione sistematica di tutti gli indici: la crescita dei prestiti scende dal 3,9% del 2020 all’1,1% del 2023 (0,7% quelli per le sole imprese); i mutui ipotecari, la cui domanda registrava un +4,7% nel 2021, scende dal 2,9% del 2022 ad un modesto 1,2% del 2023.

A metà del secolo scorso si scatenò un dibattito pubblico, senza esito purtroppo, che divenne noto come “la politica dei due tempi”. Il tema era come superare una difficile congiuntura economica e contemporaneamente finanziare le riforme di cui necessitava il Paese. Protagonisti di quello scontro politico – siamo agli albori del centro sinistra tra il 1964 ed il 1965 – furono da una parte il leader del PSI, Pietro Nenni, sostenuto da un intellettuale di prima grandezza come Antonio Giolitti, e dall’altra il ministro Colombo e il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, che ritenevano necessaria una politica “spietata”, di contenimento drastico dei salari. Carli in un suo famoso intervento ebbe a prendersela con la comparsa del pesce sulla tavola degli italiani, individuata come “molla” delle continue richieste di adeguamento salariale. In cuor loro, anche in perfetta buonafede, costoro immaginavano una sequenza temporale virtuosa tra un tempo per risanare (era la cosiddetta politica dei sacrifici) ed un tempo per crescere (il tempo delle riforme di struttura). Le cose, come è noto, andarono male assai, non si fecero le riforme, e tramontate con gli anni 70 le condizioni competitive che reggevano il miracolo italiano (svalutazioni competitive) il paese si avviò verso un irreversibile processo di deindustrializzazione: l’intero Mezzogiorno vide fallire ogni tardivo tentativo di industrializzazione che si risolse in un interminato periodo di sottosviluppo.

Oggi abbiamo davanti i medesimi rischi, che si presentano quasi con i medesimi rovelli. Le politiche antinflattive messe in campo dalla Bce rischiano chiaramente di divenire le premesse per una fase recessiva durissima. Le stesse politiche che gonfiano i profitti delle banche rischiano di generare effetti sistemici negativi sull’economia primaria e sugli investimenti delle imprese nel delicato processo di transizione digitale ed energetica. A riguardo soccorre anche un lavoro di qualche anno fa realizzato da Banca d’Italia (Bollettino n.3 del luglio 2017). In sostanza il lavoro di Banca d’Italia è basato sull’ipotesi che «la forte contrazione degli investimenti durante la prolungata recessione si sarebbe tradotta non solo in una riduzione della capacità produttiva installata, ma anche in un deciso peggioramento del suo grado di aggiornamento tecnologico, a causa del rallentamento del processo di sostituzione dei vecchi beni strumentali con quelli più recenti e tecnologicamente più avanzati».

Se, come sembra, si dovesse bloccare, per inaccessibilità dei canali creditizi, il rinnovamento del sistema industriale del Paese con l’innesto dei processi di digitalizzazione si andrebbe incontro, come già in passato, sia a una perdita di valore del capitale fisso, sia ad un precoce perdita di competitività causa la precoce obsolescenza degli apparati tecnologici. È per questa ragione profonda, strutturale, che occorre più che mai contrastare le odierne politiche antinflattive con misure che consentano di mantenere aperti e disponibili, a costi accettabili, i canali del credito per consentire al Sistema Paese di mantenersi in sintonia con le politiche europee di crescita, investendo in innovazione e in reti ambientalmente sostenibili.

L’effimero successo delle recenti trimestrali potrà anche impressionare, e consentire la chiusura di ottimi contratti di lavoro, ma ciò durerà solo fino a quando il gelo degli indici della produzione e del commercio a livello mondiale prenderanno il sopravvento e i margini di intermediazione verranno abbattuti dal crollo degli impieghi. Il rischio è che non combattendo le ragioni profonde dei livelli elevati di inflazione, che appaiono molto prossimi alla natura dei conflitti geopolitici, in evidenza su tutti gli scacchieri mondiali, ci si trovi di qui a qualche mese in piena stagflazione (stagnazione+inflazione). Ci siamo già passati, meglio evitare.

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