Contributi previdenziali prescritti: anche se rateizzati e (forse) rottamati devono essere restituiti Riflessioni in tema di prescrizione estintiva
La Corte di Appello di Milano (sezione lavoro) ha preso un orientamento costante in merito alla prescrizione dei contributi previdenziali non azionati nel termine prescrizionale di 5 anni stabilito dalla L. 335 del 1995 articolo 3 decorrenti dalla notifica della cartella di pagamento.
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Commento Corte di Appello di Milano sentenza depositata il 14 gennaio 2019 e Cassazione n. 24083 del 2018. La Corte di Appello di Milano (sezione lavoro) ha preso un orientamento costante in merito alla prescrizione dei contributi previdenziali non azionati nel termine prescrizionale di 5 anni stabilito dalla L. 335 del 1995 articolo 3 decorrenti dalla notifica della cartella di pagamento. La fattispecie decisa si riferisce quindi all’esecuzione forzata basata su una cartella di pagamento per debiti previdenziali effettuata oltre il termine quinquennale dalla notifica della stessa. La Corte milanese ha applicato il principio di cui alla sentenza in data 17 novembre 2016 n.23397, pronunciata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, secondo cui “la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo la L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato”. La Corte di Appello tuttavia va oltre ribadendo a chiare lettere che nella materia previdenziale il regime della prescrizione già maturata è sottratto alla disponibilità delle parti e il pagamento dei contributi prescritti non può neppure essere accettato dall’ente di previdenza pubblico. Tali principi sono sanciti dall’art. 3, comma 9, legge 8 agosto 1995 n. 335, a mente del quale “le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono e non possono essere versate con il decorso dei termini”. Negli stessi termini si è espressa anche la prevalente giurisprudenza della Suprema Corte, statuendo che “a differenza di quanto accade per le obbligazioni in generale, il pagamento di contributi previdenziali prescritti, non potendo neppure essere accettato dall’INPS, attribuisce all’autore del pagamento la facoltà di chiederne la restituzione ” (cfr. Cass., 20 febbraio 2015, n. 3489). L’art. 3, comma 9, legge 8 agosto 1995 n. 335 ha “reiterato, estendendone l’applicabilità a tutte le assicurazioni obbligatorie, il principio – di ordine pubblico e caratteristico di questo tipo di prescrizione della “irrinunciabilità della prescrizione“, secondo cui “non è ammessa la possibilità di effettuare versamenti, a regolarizzazione di contributi arretrati, dopo che rispetto ai contributi stessi sia intervenuta la prescrizione” (cfr. Cass., SS.UU., 17 novembre 2016 n.23397 cit.). Dalla irrinunciabilità sopraddetta ne consegue de plano che nell’ipotesi in cui l’istanza di rateizzazione del contribuente sia intervenuta dopo lo spirare del termine di prescrizione, essa non possa valere quale atto di rinuncia ad avvalersi della prescrizione maturata con riguardo ai crediti già prescritti, stante appunto l’irrinunciabilità della prescrizione in materia previdenziale. È quindi evidente che un debito previdenziale prescritto e (erroneamente o per necessità di evitare l’esecuzione) rateizzato determini il DIRITTO del “contribuente” debitore a vedersi restituito quanto versato. in qui la Corte di Appello, a cui rinvio per una lettura completa del provvedimento su una causa dalla sottoscritta patrocinata, che non lascia alcun dubbio interpretativo. Va però compiuto un passo ulteriore e lo sforzo va effettuato con riferimento all’individuazione delle sorti del debito prescritto e successivamente rottamato (e pagato) ai sensi del D.L. n.193 del 2016.La materia mi risulta allo stato inesplorata. Su questo tema è opportuno prendere le mosse dalla sentenza n.24083 del 2018 della Corte di Cassazione che fa un po’ di chiarezza sulle vicende riconducibili all’art.6 del d.l. n.193 del 2016, in particolare affrontando il tema della rilevanza e delle modalità di attuazione dell’impegno a rinunciare ai giudizi di cui al secondo comma del predetto articolo, che così recita “2. Ai fini della definizione di cui al comma 1, il debitore manifesta all’agente della riscossione la sua volontà di avvalersene, rendendo, entro il 31 marzo 2017 apposita dichiarazione, con le modalità e in conformità alla modulistica che lo stesso agente della riscossione pubblica sul proprio sito internet nel termine massimo di quindici giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto; in tale dichiarazione il debitore indica altresì il numero di rate nel quale intende effettuare il pagamento, entro il limite massimo previsto dal comma 1, nonché la pendenza di giudizi aventi ad oggetto i carichi cui si riferisce la dichiarazione, e assume l’impegno a rinunciare agli stessi giudizi.” La Corte di Cassazione dopo aver richiamato il comma 4 dello stesso articolo che disciplina gli effetti del mancato rispetto del programma di definizione agevolata, soffermandosi sull’aspetto secondo cui (solo) l’insufficiente o tardivo versamento della rata o delle rate conduca al recupero dei carichi oggetto della dichiarazione di agevolazione, va ulteriormente a definire la natura del diritto ad accedere alla definizione agevolata da parte del contribuente, per giungere a chiarire gli effetti riconducibili alla mancata rinuncia al giudizio avente ad oggetto i medesimi contributi. La Corte definisce diritto potestativo il diritto del contribuente ad ottenere la sostituzione della situazione sostanziale esistente con una nuova regolamentazione del dovuto, precisando che a detta dichiarazione deve seguire la comunicazione dell’esattore ai sensi dell’art.3; solo quindi dall’incontro tra dichiarazione del contribuente e comunicazione dell’esattore consegue la sostituzione tra le parti della situazione giuridica sottesa alla pretesa di riscossione. La Cassazione però va oltre e prende posizione sull’eventualità in cui il debitore “contribuente” non rinunci ai giudizi in corso, in armonia all’impegno preso, ai sensi dell’art.6 d.l. n.193 del 2016. La Corte stabilisce che la dichiarazione di rinuncia è un atto del debitore e non può essere sostituita da una eventuale dichiarazione dell’avvenuta “rottamazione” proveniente dell’agente di riscossione o dell’INPS. Ne consegue che – continua la Corte di Cassazione – in assenza di dichiarazione di rinuncia proveniente dal debitore, il Giudizio deba essere deciso secondo l’originaria prospettazione dei fatti, poiché la vicenda di definizione agevolata non è stata evidenziata nel suo mutamento. Fin qui la Corte di Cassazione. Ebbene a questo punto si impongono però maggiori riflessioni per l’ipotesi che il Giudizio, deciso “sull’originaria prospettazione dei fatti” si concluda con una declaratoria di prescrizione delle somme contenute nella cartella di pagamento oggetto del giudizio “non rinunciato” e “rottamate” nelle more della decisione. C’è quindi da chiedersi, sulla base dei ragionamenti precedentemente svolti, a quali effetti concreti condurrebbe la definizione agevolata di contributi dichiarati (successivamente e secondo la Cassazione del tutto legittimamente) giudizialmente prescritti. Se si è detto che la prescrizione in questa materia non può essere rinunciata, allo stesso modo non può essere “transata”, perché la materia della prescrizione in ambito previdenziale è sottratta alla volontà delle parti, rispondendo a ragioni di ordine pubblico. Si può quindi (forse) ragionevolmente sostenere che la rottamazione di contributi prescritti non sia validamente effettuata e che, una volta accertata la prescrizione, il contribuente possa chiedere la restituzione di quanto indebitamente versato. D’altra parte come è derogato l’art. 2940 c.c. (secondo cui non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato in adempimento di un debito prescritto) e ciò per effetto della natura estintiva della prescrizione in questa materia, allo stesso modo non pare che la definizione agevolata possa validamente sostituire un diritto/obbligo non più operante per il mondo del diritto con una diversa prestazione-situazione giuridica, che ad esso vada a sostituirsi. Siamo in altri termini davanti ad un debito irrimediabilmente prescritto, il cui pagamento, anche per effetto della rottamazione, fa sorgere ragionevolmente il diritto alla ripetizione. Va infatti ricordato che la prescrizione estintiva opera di diritto e non necessita di alcun atto specifico da parte del contribuente, tanto è vero che essa può essere rilevata ex officio dal Giudice, diversamente dalla prescrizione operante in materia civile. Quando si parla di prescrizione estintiva ci si riferisce a quelle ipotesi in cui il diritto (del creditore) e l’obbligo (del debitore) vengono a cessare contemporaneamente, estinguendo immediatamente l’intero rapporto giuridico, per effetto dello spirare del termine. Se quindi manca l’intero rapporto giuridico sottostante parrebbe doversi concludere che la definizione agevolata manchi del suo oggetto, ossia difetti la sussistenza del debito a cui ne viene sostituita una diversa regolamentazione. L’istituto classico della prescrizione, come affermato nell’articolo “Le stagioni della prescrizione estintiva” del magistrato Giacomo Travaglino su Questione Giustizia 1/2017, rinvenibile sul web, presenta aspetti attualissimi e la lettura dei “classici” è oggi come mai particolarmente illuminante.
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