Corte dei Conti. Sezioni riunite in sede di controllo
Dal rapporto sul coordinamento della finanza pubblica
In evidenza
La Corte dei Conti si è sostanzialmente posta due obiettivi: da un lato, delineare il quadro, quantitativo e qualitativo, entro cui vengono a collocarsi gli importanti provvedimenti varati, in materia pensionistica, con la legge di bilancio per il 2019 e con il successivo d.l. n. 4/2019; dall’altro offrire una prima valutazione dei cambiamenti in atto anche in relazione alle caratteristiche del processo di riforme già realizzato e alle prospettive di lungo periodo della spesa previdenziale e del debito pubblico. Nel 2018 la spesa complessiva per prestazioni sociali in denaro, inclusiva sia dei trattamenti di natura previdenziale che di quelli assistenziali è stata pari a 349 miliardi, in crescita del 2% su base annua e di 1 decimo di punto in rapporto al Pil (dal 19,8 al 19,9%). Nell’ambito delle prestazioni sociali in denaro, la spesa per la sola previdenza si è ragguagliata in oltre 309 miliardi (+2% rispetto al 2017), di cui 269 rappresentati da pensioni e rendite, in aumento anch’esse del 2% annuo. In termini di incidenza sul Prodotto interno lordo la spesa pensionistica si è attestata sul 15,3%, un risultato in linea con quanto stimato nel DEF di aprile 2018, ma lievemente peggiore di quanto atteso in sede di aggiornamento di quel documento, lo scorso settembre, e quindi di preconsuntivo nel Documento programmato di bilancio (DPB) di ottobre. Il DEF 2019, scontando gli effetti delle misure varate con l’ultima legge di bilancio e perfezionate con il successivo d.l. n. 4/2019, prospetta una crescita delle uscite per pensioni da 269 miliardi nel 2018 a 305 miliardi nel 2022, con un tasso di incremento medio annuo del 3,2%, significativamente superiore al tasso di inflazione. In termini di incidenza sul Pil la spesa pensionistica è destinata ad aumentare di 6 decimi, portandosi dal 15,3 al 15,9%.
Quando si passa dai dati di contabilità nazionale sulla spesa alle informazioni amministrative in materia di andamento del numero delle nuove pensioni liquidate, dell’evoluzione delle pensioni vigenti, degli importi medi dei trattamenti e dell’età media alla decorrenza del pensionamento, si osserva che le recenti innovazioni normative trovano il sistema pensionistico in una fase in cui risultano evidenti i frutti delle riforme realizzate nei passati lustri e culminati con la legge Fornero in termini di capacità di raffreddare le dinamiche intrinseche della spesa, ma, al contempo, in una situazione che mostra tutte le difficoltà di fondo dovute all’azione di spinta che la demografia e la generosità del sistema pre-riforme esercitano: così, nel 2018 si è consolidato il numero delle nuove liquidazioni, dopo l’effetto blocco registrato negli anni immediatamente successivi al varo della legge 214/2011 mentre i nuovi trattamenti complessivamente liquidati hanno presentato una crescita dell’importo medio dei trattamenti nell’ordine dell’8/9%. Per quel che riguarda l’elemento anagrafico, a seguito della riforma Fornero l’età media di uscita dal lavoro ha registrato una significativa crescita: tra il 2011 e il 2018 l’età effettiva di pensionamento è passata infatti, per le nuove pensioni liquidate nel settore privato, da 61,5 a 63,9 anni nel caso degli uomini e da 60,6 a 62,9 anni per le donne. Se tale è il quadro in cui le nuove norme di anticipo del pensionamento vengono a collocarsi, per quel che riguarda il requisito anagrafico, Quota 100 viene a ridurre di 1 anno e mezzo l’età di pensionamento per gli uomini e di 1 anno per le donne. Tale riduzione avviene in un contesto che non sembra vedere l’Italia penalizzata, nel confronto internazionale, in termini di età di uscita dal mondo del lavoro. Una comparazione su base tendenzialmente omogenea è possibile facendo riferimento a dati OCSE che presentano accanto all’“età standard” di pensionamento (età legale) una stima dell’età effettiva di uscita: secondo tali dati nel 2016 (ultimo dato disponibile) l’Italia consentiva l’uscita a 62,1 anni per gli uomini e 61,3 anni per le donne, valori che si confrontavano con i 65,1 e 63,6 anni nella media dei Paesi OCSE. La distanza tra età effettiva ed età legale assume segno positivo (cioè si resta mediamente a lavoro oltre l’età standard) in 18 dei 35 Paesi dell’OCSE. L’Italia è, con Germania e Francia, nel gruppo dei Paesi dove l’età effettiva è inferiore a quella standard, e la distanza è la più ampia di quelle osservate (-4,4 anni per gli uomini e -4,2 anni per le donne). Il previsto monitoraggio INPS attesta che alla data del 13 maggio 2019 per Quota 100 erano state presentate circa 132 mila domande, di cui il 41% nel settore del lavoro dipendente privato, il 33% nel comparto pubblico e circa il 19% nel comparto autonomo (oltre al 6,5% in regime di cumulo). Quanto all’età, il 35 cento ha meno di 63 anni, il 45% si colloca nella fascia fra 63 e 65 anni, il restante 20% ha più di 65 anni. Quasi i tre quarti dei richiedenti è di sesso maschile. La distribuzione regionale delle domande presentate evidenzia come esse provengano in primo luogo dalla Lombardia (12,6%) e poi, nell’ordine dalla Sicilia (9,5%), dal Lazio (9,4%) e dalla Campania (8,7%). Nel complesso, per quel che riguarda i possibili esiti delle nuove norme nel loro primo anno di vigenza, pur se una mera proiezione al 31/12/2019 dei valori fin qui registrati mostra un sostanziale allineamento dei valori effettivi con quelli stimati (290 mila), una lettura dei dati che tenga conto di una serie di fattori che hanno influito sui valori fin qui disponibili e che riguardano soprattutto la componente pubblica porta a ritenere esiti finali un po’ inferiori a quanto stimato in sede di Relazione tecnica. Un confronto delle stime ufficiali (o, se non disponibili, di stime basate su un campione di dati INPS), con i dati effettivi fin qui disponibili, mette in luce una certa corrispondenza tra le domande effettivamente presentate e le caratteristiche risultanti dalla potenziale platea di beneficiari valutabile ex-ante: la distribuzione per genere conferma, dati i requisiti richiesti e la tendenziale sotto contribuzione delle donne, che la misura attrae soprattutto assicurati uomini (73 contro 27%), poco più di un terzo di lavoratori pubblici e nell’ambito dei lavoratori privati, all’incirca per metà lavoratori dipendenti e per metà lavoratori autonomi (soprattutto artigiani e commercianti e poi coltivatori diretti). Anche la distribuzione per età appare grosso modo in linea. Quanto ad una valutazione più complessiva, si deve osservare che pur considerando che trattasi di strumento di carattere dichiaratamente sperimentale e che si muove nell’ambito dell’impianto pensionistico (sistema di calcolo, legame contributi-prestazioni, logica attuariale) costruito nei decenni scorsi, le motivazioni economiche alla base dell’introduzione di Quota 100 non appaiono agevolmente interpretabili. Non pare infatti che le ragioni che hanno portato alle riforme realizzate nell’ultimo decennio siano venute meno. Al contrario, negli ultimi anni, da un lato, è stata ribadita costantemente la crucialità dei loro frutti – visto che secondo valutazioni della RGS ribadite nel DEF 2019, grazie ai soli interventi di riforma succedutesi dal 2004 “la minore incidenza della spesa pensionistica in rapporto al Pil ammonta ad oltre 60 punti percentuali fino al 2060, di cui circa un terzo da attribuire alla legge 214/2011” -, dall’altro, sono state prodotte analisi ufficiali che ne evidenzierebbero l’insufficienza. Gli studi più recenti sulle tendenze delle spese legate all’invecchiamento della popolazione consegnano risultati meno positivi di quelli degli anni passati e segnalano il possibile riemergere di squilibri prospettici: l’incremento di spesa pensionistica previsto dalla RGS per il 2035/40 in occasione degli ultimi aggiornamenti delle proiezioni di lungo termine, confermate nel DEF 2019, appare netto, con l’incidenza sul Pil, che nel punto di picco, cresce di 7/8 decimi di punto, soprattutto a causa dell’avverso sviluppo delle variabili macroeconomiche e demografiche. Sotto questo aspetto, alcune delle soluzioni raccomandate di recente dagli organismi internazionali per correggere le tendenze di lungo periodo (riduzione del tasso di rendimento annuo riconosciuto nel calcolo della componente retributiva, adeguamento del tasso di sconto utilizzato nel calcolo dei coefficienti di trasformazione alle ridotte potenzialità di crescita di lungo periodo, ecc.) appaiono premature proprio perché non sono da escludere scenari macroeconomici tali da modificare le prospettive in senso più favorevole di quanto oggi stimato; scenari ai quali peraltro buone politiche economiche possono molto contribuire; e tuttavia, è necessaria una continua vigilanza sugli equilibri di fondo e sono da preferire, quando necessario, soluzioni mirate e finalizzate a rimuovere fragilità specifiche. Del resto, dopo il varo della legge 214/2011, il complessivo sistema di eccezioni ha significativamente mitigato gli inasprimenti indotti dalla legge Fornero, consentendo di andare in pensione ad un numero consistente di coloro i quali non avrebbero potuto lasciare il lavoro sulla base di un’applicazione rigida delle nuove norme. Peraltro, misure di allentamento rivolte a segmenti effettivamente fragili (lavoratori precoci, operanti in particolari settori, ecc) sono anche sostenibili dal punto di vista della logica attuariale ed assicurativa. In un sistema che eroga prestazioni con ancora elevate componenti retributive, l’anticipo dell’età di pensionamento rispetto a quella ritenuta congrua con l’equilibrio attuariale e intergenerazionale comporta sia esigenze di cassa, cioè maggiore spesa immediata (tipiche di un sistema a ripartizione), sia debito implicito, in quanto la componente retributiva del trattamento non viene corretta per tener conto della maggiore durata della prestazione. Le misure in materia di previdenza dovrebbero essere ispirate ad un corretto bilanciamento delle esigenze delle generazioni presenti con quelle delle generazioni future. Tanto Quota 100 quanto alcune altre disposizioni in materia pensionistica varate con la manovra per il 2019 ed i provvedimenti correlati (blocchi dell’indicizzazione dell’età alla speranza di vita, reintroduzione del sistema delle finestre, ecc.) dovrebbero essere valutate tenendo conto dell’importanza che sia definito, in un comparto della spesa corrente così rilevante sul piano quantitativo e qualitativo, un quadro di certezza e stabilità normativa. Un quadro che dovrebbe essere in grado di offrire una “sostenibile normalità” alle nuove generazioni, ai lavoratori più anziani, alle imprese, agli investitori internazionali interessati ad avviare attività economiche nel nostro Paese per i cui piani industriali rileva la prospettiva degli oneri sociali. Si muovono invece nella logica del non ordinario non soltanto Quota 100, ma anche misure come quelle sulla modifica del meccanismo di perequazione ai prezzi, quella sul contributo, per l’appunto straordinario, sui trattamenti di importo elevato, quella relativa ai tempi per la corresponsione del TFR/TFS nel comparto del pubblico impiego, quella che impedisce il cumulo della “pensione Quota 100” con altri redditi da lavoro, e così via.
L’introduzione di Quota 100 ha comunque posto sotto i riflettori una reale e inevasa esigenza del nostro sistema pensionistico post riforme: quella di un maggior grado di flessibilità del requisito anagrafico di pensionamento. Ma al riguardo sarebbe necessaria una soluzione strutturale e permanente. Ciò è tanto più vero in un contesto in cui il tema dell’accesso alla pensione prima dell’età prevista per il trattamento di vecchiaia sarà di crescente rilievo dal momento che i lavoratori in regime pienamente contributivo hanno già, a legislazione vigente, la possibilità di andare in pensione a 64 anni di età (con 20 di contributi ed un importo dell’assegno pari a 3 volte il trattamento minimo). Sarebbe quindi opportuno utilizzare la fase sperimentale che si è aperta per considerare una soluzione del problema della flessibilizzazione dell’età d’uscita più neutra dal punto di vista dell’equità tra coorti di pensionati. Non spetta naturalmente alla Corte proporre soluzioni. Occorrerebbe comunque offrire una maggiore uniformità nelle regole sull’età di uscita e, pur nella flessibilità, preservare, gli equilibri e la sostenibilità di lungo termine del sistema. Qualunque scelta pone un problema di cassa non indifferente, ma una “correzione attuariale” della componente retributiva dell’assegno, in caso di pensioni “miste”, non comporterebbe la creazione di debito pensionistico implicito. Oltre al tema della flessibilità di uscita e di una sua opportuna, generale e non transitoria, normazione, sarebbe comunque utile che si aprisse una fase di attenta riflessione su temi di grande rilievo prospettico come a) la relazione tra condizioni effettive di salute in età anziana e requisiti dei sistemi pensionistici e b) l’adeguatezza prospettica dei trattamenti previdenziali futuri e la possibilità che, in contesti caratterizzati da bassi salari e forte precarizzazione delle carriere lavorative, si determinino elevate quote di trattamenti previdenziali “poveri”, con implicazioni sulle politiche assistenziali e sulla stessa propensione dei lavoratori a contribuire al sistema di assicurazione generale obbligatoria.
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