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Il pepe della democrazia, la scelta popolare ai referendum

Sono pungolo e contrappeso non solo necessari ma fondamentali, vitali anche per il Parlamento stesso che sono chiamati a controbilanciare

Il pepe della democrazia, la scelta popolare ai referendum

Se il sale della democrazia è variabilmente definito – ora come dissenso, ora come libertà d’informazione, più di recente Nadia Urbinati l’ha identificato nel conflitto tra élite e popolo – il pepe è senz’altro la partecipazione popolare. E se è vero come è vero che, come asserì quel popolarissimo élitista di Winston Churchill, “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”, guai ad averne paura. È un bene, dunque, per la democrazia e per il Paese, che quest’ultimo in seguito all’iniziativa di Lega e Radicali, al netto dell’eterogenesi dei fini, si trovi a discutere dei cinque referendum abrogativi su cui il 12 giugno le cittadine e i cittadini saranno chiamati a decidere.

D’altra parte, come ho già osservato, che istituti come quello referendario e istituzioni come la Consulta si conservino bene e a lungo: sono pungolo e contrappeso non solo necessari ma fondamentali, vitali anche per il Parlamento stesso che sono chiamati a controbilanciare.

Ora, per onorare e preservare tutto questo, occorrono due cose. Innanzitutto il non far passare sotto silenzio questo passaggio, non prenderlo sottogamba nonostante il quorum sia oggettivamente lontano: chi in passato ha apertamente, oscenamente osteggiato le consultazioni popolari invitando a disertarle (e attivandosi proattivamente per sabotarle), come Craxi nel ’91, Berlusconi nel 2000, Bossi nel 2009 e Renzi nel 2016 ha quantomeno commesso omissione d’atti d’ufficio istituzionale, danno democratico che va sanato ad ogni occasione con tutti i voti possibili, comunque la si pensi (e si voti) nel merito.

In seconda istanza per l’appunto il merito: nella pur comprensibile semplificazione tra chi sosterrà il Sì e chi il No, un pur faticoso – come la democrazia, d’altronde – supplemento di generosità e riflessione richiede lo sforzo di disossare e discernere ciascuno dei cinque quesiti, ed ecco di seguito, in buon ordine, come credo debba crederla ed esprimersi un popolo di sinistra, un popolo di democrazia.

Il primo referendum è sull’abrogazione della Legge Severino, la norma sacrosanta che – al netto di perfettibilità sempre possibili – ha assestato un colpo importante a berlusconismo e corruzione nel nostro Paese, una legge trasformazionale di salute democratica e avanguardia moderna su cui non c’è davvero granché da discutere, con buona pace di Berlusconi che fu tra i primi ad esserne direttamente interessato: No.

Il referendum sulle misure cautelari è delicato, come è delicata la questione della libertà personale nella carcerazione preventiva, ma nel Paese in cui tutti sono sempre innocenti, e nessuno (soprattutto, e per i eati più odiosi contro il pubblico, chi può permettersi tanti e tanto prezzolati principi del foro) in carcere non finisce mai, figurarsi prima, una scelta di dignità impone di votare contrariamente a quanto faranno Renzi e Salvini: No.

Sulla separazione delle funzioni dei magistrati, terzo quesito, dell’Italia degli ordini, delle corporazioni, delle dinastie, delle famigghie, delle parrocchie, i compartimenti stagni non sono solo un incrostato insistere nella stessa stortura sistemica, ma un danno rispetto al punto di vista differente, all’ampliata visione che può conseguire un uomo di diritto affrontando da punti prospettici diversi le diverse questioni di giustizia sociale e sostanziale: votare positivamente a questo referendum perché se no il magistrato cambiando funzione sicuramente sarà corrotto e corromperà è una foglia di fico falsa che offende democrazia e giustizia e chi vi crede: No.

Il quarto quesito è sulla partecipazione del membri laici come gli avvocati, con diritto di voto, al valutare l’operato dei magistrati: ciò può rappresentare evidentemente una diminutio del potere imperante, spesso deleterio, delle correnti, e per un principio ben simile avverso ai compartimenti stagni di cui al quesito precedente, questa innovazione che arricchisce la democrazia e difende la giustizia, confortata dal balbettio su questo punto dei sostenitori del No e dal borbottio di (certo) Csm, non si può che votare favorevolmente: Sì.

Anche il quinto e ultimo quesito ha a che fare con certe storture e dinamiche tossiche in seno al Csm, così come ha a che fare con il correntismo esasperato e non più edibile, oggi meno che mai digeribile: per potersi candidare al Consiglio superiore della magistratura occorre oggi raccogliere presso le correnti dalle 25 alle 50 firme, dunque per il candidato non c’è tecnicamente altra strada che venire a patti con i gruppi associativi, con le tribù correntizie. Approvando il quesito invece, finalmente, ogni bravo magistrato non dovrà più chiedere la grazia a nessuno, e potrà candidarsi liberamente; se è il più bravo, e può fare meglio per far sì che la giustizia sia uguale per tutte e tutti, dai prezzolati ai poveracci, avrà il diritto di provarci: Sì.

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